La prima parte delle «Rime» alfieriane (1961)

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, s. VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1961, pp. 3-33; poi in Saggi alfieriani (1969 e 1981) e Studi alfieriani (1995).

La prima parte delle «Rime» alfieriane

Dopo il Saul, l’Alfieri tornerà all’attività tragica solo nell’autunno del 1784, quando in Alsazia ideerà l’Agide, la Sofonisba e la Mirra, che porterà poi a compimento solo nel 1786.

Fra queste due fasi della sua attività tragica vi è un lungo periodo che l’Alfieri considerò come un intervallo di inoperosità, di irrequietezza (quasi ripresa di quella «impazienza di luogo» che aveva caratterizzato la sua prima gioventú, il periodo di viaggi precedente alla scoperta della propria vocazione poetica) e di doloroso abbattimento provocato dalla forzata lontananza della “sua donna”, dopo che il 4 maggio del 1783 un ordine papale di espulsione da Roma[1] seguiva al tardo risveglio del tutore della d’Albany, il cardinale di York, finalmente convinto dalla natura dei rapporti della cognata con il poeta.

Questo periodo di viaggi (prima nell’Italia settentrionale, poi in Francia e in Inghilterra con intervalli di soste a Siena) è contraddistinto non solo da una intensa vita sentimentale, sollecitata dalla lontanzanza dell’amata e tradotta nelle rime abbondantissime in questi anni, ma anche – nell’abbandono dell’attività tragica – da una iniziale attenzione e reazione dell’Alfieri ai giudizi dei letterati contemporanei sulle sue tragedie finalmente edite a Siena appunto nel 1783. Cosí i suoi viaggi nell’Italia settentrionale ebbero inizialmente per l’Alfieri anche lo scopo di ascoltare i pareri e i consigli dei letterati piú famosi, dopo che egli aveva già sperimentato le prime censure degli aborriti giornalisti e dei pedanti cruschevoli toscani, contro i quali proprio nel 1783 veniva esercitando una nuova attività epigrammatica[2], rivolta anche a sfogare la sua avversione e il suo risentimento contro il potere ecclesiastico, causa della sua espulsione da Roma[3].

Ma anche gli incontri col Cesarotti e col Parini furono piuttosto delusivi per il poeta, che aveva ormai dello stile idee proprie e poco corrispondenti anche alla ricerca di eleganza e di armonico equilibrio del neoclassico Parini[4]; per non parlare della concezione angusta e linguaiola dei cruscanti, cosí lontana dalla sua esigenza di profonda espressività della parola. Sicché queste stesse preoccupazioni di affinamento dei propri mezzi espressivi, di rielaborazione delle proprie tragedie al di là della stessa edizione senese (che lo condurranno al nuovo lavoro di revisione dell’edizione definitiva parigina del 1787-89) e il contatto e le discussioni con i letterati contemporanei cosí poco capaci di comprendere la sua poesia e piú volti a criticarla che ad accettarla, si risolvono in moti di amarezza e di sdegno per l’incomprensione che colpiva la sua opera, nella tormentosa e orgogliosa coscienza del proprio valore, nella esaltazione personale e in quella contrapposizione del proprio alto mondo di sentimenti e di valori (fra i quali fortissimo il valore della poesia, della propria alta vocazione poetica, della grande poesia del passato) a un mondo mediocre e inferiore: contrapposizione che tanto bene si unisce in questi anni, e nello sfogo appassionato delle Rime, allo stimolo della lontananza dolorosa dalla donna amata che rinforza e sostiene cosí efficacemente l’alfieriano contrasto di un alto piano di eccezione su cui il poeta si muove e si rappresenta, personaggio tragico ed eroico, perseguitato e infelice (in mezzo alla personificazione dei suoi sentimenti e a figure grandiose ed infelici – «Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti»[5] –, dotate di «forte sentire», distinte dalle stigmate della sventura) di contro ad una umanità arida e vile, gretta e infida.

Da questa essenziale posizione sentimentale, sollecitata dalle sue particolari condizioni biografiche (e si calcolino anche la scontentezza causata dall’abbandono dell’attività tragica sentita come la sua piú vera, congeniale, nobile attività, l’irrequietezza dei suoi stessi sentimenti che han perso il saldo appoggio consolatore della fruizione costante dell’amore, l’amarezza d’una continua verifica della disparità fra ideali e realtà), trae origine la copiosa produzione di rime di questi anni: il gruppo piú compatto della prima parte dell’omonima raccolta alfieriana[6].

Le Rime (pur nelle diversità, particolarmente sensibili nella seconda parte intonata ad uno stato d’animo meno drammatico, alle forme piú meditative, pacate, composte, caratteristiche della vena piú segreta ed intima dell’ultimo Alfieri) hanno una certa loro generale continuità, una base comune in un atteggiamento di diario lirico, di “libro segreto’’[7], di sfogo autobiografico piú diretto e legato anche a particolari occasioni sentimentali, a luoghi e vicende, a stati d’animo particolari che lo stesso Alfieri volle ben precisare segnando sempre accuratamente la data e il luogo della prima composizione (o della prima loro forma, abbozzata a volte mentre il poeta viaggiava a cavallo) e spesso anche la condizione biografica e sentimentale da cui nascevano le varie poesie.

Ed anzi l’Alfieri (che pur tanto chiaramente mostrò di tenere alle Rime pubblicandone la prima parte e preparando la seconda per la stampa, e che dedicò cure particolari alla loro revisione e correzione stilistica, finendo spesso per portarle alla loro espressione poetica piú intera proprio con una profonda rielaborazione piú tarda) rilevò spesso eccessivamente questo carattere di sfogo della sua “rimeria” distinguendolo dall’impegno piú alto delle tragedie, associando allo sfogo immediato del pianto specie per le rime scritte nella lontananza dalla d’Albany, nell’errabondo viaggiare a cavallo, stimolato dal dolore e dall’impazienza («sempre piangendo e rimando»)[8], svalutando a volte le rime come «diluvio di rime» artisticamente troppo immediato e poco curato, come eccessive di numero e pur sempre confermandone comunque la necessità come «sfogo o rimedio» alla «accesa [sua] fantasia», come «nobile e dolce sfogo della mestizia dell’animo»[9].

In realtà le Rime, mentre costituiscono indubbiamente un complemento essenziale della autobiografia dell’Alfieri, un documento delle sue vicende dolorose e del suo animo tormentato dai diversi sentimenti legati a precise occasioni, hanno un valore, anche in tal senso, piú profondo, evocando, sulla spinta delle varie occasioni, immagini profonde del suo animo poetico e del suo piú intimo autoritratto (ed elemento caratteristico delle Rime è l’analisi acuta e tormentosa di se stesso, la volontà di autoritratto), esprimendo anche elementi essenziali della sua intuizione e della esperienza drammatica della vita, recuperando spesso, in forme piú liriche, lo scatto piú puro del suo impeto tragico e giungendo ad autentici – anche se rari – capolavori, entro una costante disposizione poetica di diversa intensità, entro essenziali linee di una poetica che supera, indirizza le qualità di sfogo verso precisi obiettivi artistici ed adibisce ad essi precisi mezzi espressivi.

I risultati pieni, assoluti saranno rari (e spesso si avranno piuttosto impeti frammentari, versi balenanti in un contesto piú debole), ma essi presuppongono non solo una generale disposizione di sincerità sentimentale, una base di generale intensità e ricchezza sentimentale (in cui riconosciamo piú apertamente quella ricchezza e intimità d’affetti, quella finezza e nobiltà spirituale, quella profonda, genuina umanità che poteva già indicarsi nell’Alfieri maturo fra Merope e Saul e che anche ora non può mai dissociarsi dal centrale impeto personale eroico e pessimistico e dall’aristocratica distinzione da ogni mediocre affabilità e tenerezza), ma anche una genuina radice ispirativa, una generale poetica, una volontà artistica che tende a utilizzare ai propri fini quel ricco mondo sentimentale già disposto liricamente, e una esperienza letteraria sempre piú sicura dopo i tentativi giovanili piú eclettici e incerti.

Tale esperienza letteraria si precisa soprattutto nel valore che l’Alfieri delle Rime dette all’esempio del Petrarca[10], la cui lettura fu particolarmente assidua negli anni della «lontananza», e si giustifica nell’alta stima che l’Alfieri faceva del «gentil d’amor mastro profondo», del «sublime / dolce testor degli amorosi detti»[11] appunto come maestro di poesia amorosa (e quindi presente soprattutto all’Alfieri nelle rime amorose, piú che in quelle piú apertamente politiche o in quelle di meditazione sugli eroi e sulla sorte misera ed alta degli uomini), come modello di lingua poetica amoroso-elegiaca, di una tematica di tormento amoroso, e anche di una misura di componimento, il sonetto, in cui l’Alfieri volle chiudere e contenere il suo esuberante sentimento: non senza fatica e spesso – ben diversamente dal Petrarca – dibattendosi entro quella perfetta articolazione, squilibrandone le parti sotto il suo impeto piú intenso, o esaurendo la forza negli inizi o viceversa trovando nei finali concisi e vibranti un risultato invano perseguito nelle parti precedenti del sonetto.

In realtà il petrarchismo alfieriano[12] ha caratteri cosí peculiari che mal lo si può ricondurre nei veri termini di una storia del petrarchismo, e tanto meno, ben s’intende, in quello del petrarchismo settecentesco che nel Petrarca vedeva la regolarità, l’evidenza, la gentilezza patetica, la misura e magari la “leggiadria”, perdendone i caratteri poetici piú profondi e quel nucleo di conflitto interiore che viceversa l’Alfieri portava ad una tensione violenta fuori dei suoi termini precisi, personali e storici, caricando a volte la sua stessa immagine del Petrarca di risoluti colori preromantici; come quando nel sonetto 59 dipinge un Petrarca che solitario vive ad Arquà, privo di Laura, «in lutto orrendo»[13].

Certo anche questo modo preromantico di risentire il Petrarca avrà una sua importanza ed efficacia rinnovatrice nel modo di lettura e di interpretazione successiva all’Alfieri (che cosí anche in tal caso si mostra iniziatore e stimolatore della nuova sensibilità romantica), ma indubbiamente l’Alfieri riprendeva elementi della tematica e della lingua poetica petrarchesca in maniera cosí sua e cosí funzionale alla sua diversa ispirazione e poetica che alla fine si dovrà dire che il Petrarca fu soprattutto per lui un fornitore di parole, di frasi, di moduli del linguaggio amoroso sostanzialmente trasformati e spesso addirittura quasi capovolti, quasi base di una violenta ripresa a contrasto. Come avviene per il paesaggio, non in funzione distensiva e rasserenante, non quale elemento di contemplazione di vaghe immagini soavi, ma viceversa in funzione drammatica, quale coefficiente di intensificazione del sentimento doloroso, come proiezione dell’animo e delle sue immagini cupe e tormentose. Come avviene per la stessa funzione della poesia, che nel Petrarca «disacerba» «il duol» (son. 23) e nell’Alfieri invece ne è intensificata espressione, perché essa è «del forte sentir piú forte figlia» e perché il piacere vero dello sfogo poetico è per l’Alfieri «il far sempre piú viva / mia doglia, e il viver tutto immerso in ella»[14]. Per non parlare dei procedimenti stilistici alfieriani che sfuggono sempre la distensione e recuperano (nei momenti piú ispirati) una singolare misura di equilibrio solo per una energica composizione di parti tutte portate allo stesso grado di forza e di pienezza robusta (cosí come certa superiore calma malinconica, certa contemplazione piú dolce sorgono solo al culmine di una violenta tensione di immagini e di affetti), mentre al linguaggio morbido ed unito del Petrarca («l’olio» di cui parlava il Leopardi) fa riscontro nell’Alfieri una diversa energia, asprezza e rilievo delle parole, come al giro perfetto e concluso del ritmo petrarchesco corrispondono le spezzature alfieriane, le energiche arcature, le clausole perentorie a rilievo.

E oltre tutto, la materia sentimentale e poetica stessa delle Rime esorbita spesso dal semplice schema amoroso e non può tutta inquadrarsi nel rapporto che il mondo poetico del Petrarca ha con la salda, centrale immagine di Laura, che non ha certo in alcun modo un equivalente in quella alfieriana di Luisa Stolberg.

Immagine incapace di esercitare costantemente una funzione simile a quella di Laura nell’abbondante mondo sentimentale delle Rime. Né queste, anche negli anni della «lontananza», possono ridursi – checché l’Alfieri ne dicesse – solo a “sospiri d’amore”, anche perché lo stesso motivo amoroso funzionava soprattutto come stimolo di una piú complessa e vasta espressione del tormentoso e drammatico animo alfieriano nelle sue note piú profonde e radicali.

L’esercizio delle Rime ha un inizio lontano nella gioventú dell’Alfieri e (a parte un sonetto del 1770[15], prova sciatta ed inesperta di una velleità letteraria senza corrispettivo di ispirazione e di possesso di mezzi espressivi) si documenta in un primo gruppo di sonetti della fine del 1776, intonati a una maniera comune nel Settecento: sonetti pittorici sul modello del celebre Ratto di Proserpina del Cassiani (di cui è imitazione il sonetto 1, sul ratto di Ganimede), nei quali si può al massimo osservare come l’Alfieri accentuasse in quel manierismo figurativo-poetico un certo gusto del plastico e del muscoloso piú congeniale al suo bisogno di energia e di scatto drammatico. Come non piú che qualche movimento appassionato e sensuale (ad esempio, i versi 5-6 del sonetto 6) si può sottolineare nel gruppo di sonetti galanti alla marchesa di Ozà dello stesso periodo, che precisano un’attenzione edonistico-sensuale alle belle forme del corpo femminile, una specie di estasi contemplativa che, insaporita da una intensità piú alfieriana di brama di possesso, la smorza poi in un compiacimento troppo particolare (l’ammirazione del piede gentile della donna nel sonetto 13) e in moduli di sorridente grazia settecentesca cosí alieni dal vero gusto alfieriano come lo è l’uso della mitologia in funzione galante o quello dei diminutivi leziosi che può ugualmente notarsi nel citato sonetto.

La vera voce della poesia alfieriana si fa sentire invece in quei sonetti di fine ’77 inizio ’78 che esprimono sentimenti già maturati nelle tragedie degli stessi anni, nelle quali piú debole, meno sicura è l’espressione dei sentimenti amorosi e la tenerezza scade facilmente in languore e patetismo. Come nel sonetto 16 contro lo Stato pontificio (in cui poeticamente vale soprattutto la rappresentazione iniziale, cosí squallida e cupa, della «vuota insalubre regïon», degli «aridi campi incolti» e del popolo «rio codardo e insanguinato», degli «squallidi oppressi estenüati volti»[16]) o nel sonetto 17 che esprime, in una intensa meditazione sull’anima, il senso doloroso dei limiti della natura umana, della forza invincibile del «vil servaggio» dei sensi, la coscienza amarissima di un sensista insoddisfatto e romanticamente impaziente di una verità che di tanto riduce le possibilità dell’uomo: «Veder, toccare, udir, gustar, sentire; / tanto, e non piú, ne diè Natura avara»[17]. O soprattutto nel sonetto 18:

Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,

l’adunca falce a me brandisci innante?

Vibrala, su: me non vedrai tremante

pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer, sí, nascer chiamo aspra vicenda,

non già il morire, ond’io d’angosce tante

scevro rimango; e un solo breve istante

de’ miei servi natali il fallo ammenda.

Morte, a troncar l’obbrobrïosa vita,

che in ceppi io traggo, io di servir non degno,

che indugj omai, se il tuo indugiar m’irrita?

Sottrammi ai re, cui sol dà orgoglio, e regno,

viltà dei piú, ch’a inferocir gl’invita,

e a prevenir dei pochi il tardo sdegno.[18]

Sonetto che realizza con potenza il sentimento alfieriano della morte agonisticamente ostile e pur liberatrice da una vita di servitú, che vibra, come sempre avviene nella vera poesia alfieriana, di un’angoscia piú profonda e non solamente politica e che pure proprio la passione politica in quegli anni permetteva all’Alfieri di rappresentare poeticamente. In questo sonetto, che si articola nella tipica forma alfieriana di “intensificazione” di ogni parte della costruzione, nella forte, severa scansione del verso vibrato e perentorio (l’opposto della fluidità e della cadenza armonica, della eleganza vaga e leggiadra), un tema profondo, maturo, drammatico (in cui il poeta e la morte si atteggiano naturalmente come personaggi di tragedia vigorosi e potenti) trova un’espressione adeguata, utilizzando forme già sperimentate nella tragedia e nella stessa prosa robusta della Tirannide – prosa veramente qui «nutrice del verso» – rinnovando cosí decisamente (come avviene poi nelle rime della maturità) con la potente immissione di un nuovo contenuto poetico lo stesso linguaggio, cosí convenzionale e incerto invece, in quegli anni, nelle rime amorose e galanti.

Cosí nelle poesie del ’78-79 si può notare che, mentre piú facile riesce all’Alfieri raggiungere forme poetiche piú sue e notevoli risultati poetici nelle poesie ispirate ai toni drammatici del suo animo, al suo fremente ardore di libertà e al suo senso doloroso del servire o al contrasto fra la sua epoca vile e la grandezza eroica e libera di un passato fortemente idealizzato (il sonetto 31, in cui esalta la cessione del suo patrimonio alla sorella per non aver piú obblighi di suddito verso la monarchia sabauda e la sua decisione di vestir da allora in poi «negri panni» a simbolo dell’austerità della sua vita e del suo lutto di esule per la patria schiava[19]; il sonetto 37, che si ispira ugualmente alla sua decisione di rompere i propri legami con la patria-non patria perché serva[20]; il sonetto 40, che contrappone la Firenze libera, patria di Michelangelo, Petrarca, Dante, Galileo, Machiavelli[21], alla Firenze contemporanea serva e decaduta), molto piú incerti appaiono i risultati delle poesie ispirate all’amore per la d’Albany, specie nella disposizione poco alfieriana della passione soddisfatta, del possesso di un bene che acquisterà valore poetico tanto piú vero ed efficace quando sarà lontano e irraggiungibile, mèta di tensione, stimolo di tormento, coefficiente di infelicità, oggetto bramato e ideale a contrasto con una realtà tediosa, luminoso, arduo simbolo di un valore a contrasto con il mondo mediocre e vile in cui il poeta è costretto a vivere.

La nuova e piú profonda passione, il «degno amore» che tanta importanza ebbe nella vita dell’Alfieri, cerca una espressione intensa ed originale alla propria condizione di estasi alta ed eccezionale, di sentimento nuovo e cosí intenso da divenir quasi doloroso e da mostrarsi insieme come un rinnovamento cosí radicale dell’animo che la vita precedente appare inutile e insignificante. E certo qua e là ne risultano mosse nuove a tradurre una nuova ricchezza di vita psicologica varia e originale (come, ad esempio, nel 20, nel 23, nel 27); ma piú spesso l’estasi decade in languore, la contemplazione si svolge in forme piú convenzionali di edonistico e neoclassico idillio (come nel 29), in miti troppo facili e goduti (il 26); la tenerezza affettuosa si fa patetismo e ricorre a moduli di linguaggio arcadico (quell’«amorosetta» e quelle pupille «languidette» del 21!) non riuscendo a creare forme proprie nuove. E l’attenzione ai particolari fisici della donna amata si limita in espressioni piú edonistico-galanti, lontane da certi momenti di realismo quasi ottocentesco che l’Alfieri raggiungerà solo piú tardi. Mentre persino la tipica tendenza alfieriana a movimenti intensi di appassionata affermazione della assolutezza del proprio sentimento si traduce in procedimenti piú letterari (come l’adýnaton delle due quartine del 27), cosí come l’originale ricerca del rilievo finale in forme energicamente definitorie e incisive (il gusto dell’epigramma e della battuta fulminea delle tragedie trasportato nel sonetto) ricorre a motti ad effetto, quasi concettistici, di discutibile efficacia e non privi di una certa goffezza, come quel «venni, e vidi, ed arsi» del 21[22], infelice ripresa del cesariano veni, vidi, vici.

Difficile era anche l’impasto di toni teneri e affettuosi con quei movimenti piú genuinamente drammatici che in alcune situazioni propizie (piú che la gioia, l’incertezza, e il tormento di brevi lontananze – come nel 36 – causati dalla gelosia del vecchio Stuart) si affermano piú decisamente già in questa zona piú immatura delle Rime: difficoltà di cui permangono tracce anche in momenti piú deboli della ripresa intensa delle Rime nel 1783.

Dopo una lunga interruzione fra la fine del ’79 e il maggio del 1783 (in questo intervallo l’Alfieri scrisse solo otto sonetti, due dei quali – il 46 e il 49 – composti nella «prima» e «seconda lontananza» dalla donna amata: il secondo è già notevole per la forza dell’immagine iniziale, che richiama celebri immagini del Saul e consolida la nuova attenzione alfieriana ad un paesaggio doloroso, come paesaggio dell’animo doloroso[23], la unitaria evocazione di paesaggio intimo ed esterno, la partecipazione della natura al pianto del poeta), una nuova attività di rime si inizia appunto nel 1783 sotto lo stimolo della brusca separazione dell’Alfieri dalla d’Albany, della improvvisa perdita della situazione di agio intimo, di equilibrio fra solitudine ed esercizio di affetti mantenuti a lungo negli anni romani. Circa una cinquantina di sonetti nascono cosí tra la fine di maggio e la fine di novembre accompagnando, in forme piú chiare di diario lirico, il viaggiare errabondo e irrequieto dell’Alfieri, in un ciclo poetico intenso e continuo.

Sulla base di una sdegnosa ed ironica sfida lanciata dal tragico al pubblico italiano e al suo gusto molle ed effeminato (il sonetto 52), un primo gruppo di sonetti commenta un singolare pellegrinaggio presso le tombe dei grandi poeti italiani (quella di Dante a Ravenna, dell’Ariosto a Ferrara, del Petrarca ad Arquà)[24], che sembra quasi una specie di rivincita del poeta di fronte alle inutili visite ai letterati viventi, la riprova a se stesso della propria solitaria originalità, della propria vocazione alla grande poesia, confortata dalla congenialità con la poesia e con i poeti del passato e della grande tradizione italiana, con un mondo di eccezione e di straordinaria altezza, che viene violentemente posto in contrasto con il mondo inferiore del suo tempo, con una umanità vile ed arida, priva di «forte sentire», edonistica ed antieroica e perciò chiusa alla grande poesia.

Sicché questi sonetti atteggiano l’omaggio ai grandi poeti del passato[25] in una singolare forma di esaltazione di un mondo alto e aristocratico in cui il poeta si chiude e si innalza di contro alla «gente bassa», alla «turba malnata e ria» in cui si confondono i precisi oggetti dello sdegno piú immediato del poeta (i preti della corte romana, i critici malevoli delle sue tragedie) e l’immagine del piú profondo disprezzo dell’uomo superiore, della sua intransigenza di fronte alla bassezza e mediocrità, che – con amarezza pessimistica – si avvertono prevalenti e vittoriose nel mondo.

Cosí i due sonetti al sepolcro di Dante (53 e 54: il secondo è particolarmente notevole nelle due quartine anche per una specie di volontaria ripresa della forza dantesca nella violenza e nell’asprezza sentimentale e poetica che ricorda come il “petrarchismo” alfieriano sia in realtà pieno di echi e di mosse dantesche) si appoggiano sul contrasto con la «gente tanto bassa»[26] e con gli «itali cori» che «or fiamma niuna avviva»[27]. Cosí il sonetto 58 per la casa del Petrarca svolge l’inizio piú dolce (e intonato al celebre inizio petrarchesco «O cameretta») in un impeto di sdegno contro i moderni che la lasciano inonorata. Cosí lo stesso sonetto 60 alla tomba dell’Ariosto non manca di un movimento piú forte nel rimpianto aspro dei valori cantati dall’Ariosto e perduti ormai nel presente inferiore e decaduto.

Motivo essenziale di contrasto drammatico che costituisce il legame fra Rime e tragedie e che, accentuandosi e ampliandosi in forme piú esplicite e varie, tende e rafforza la stessa tematica amoroso-dolorosa: come avviene del resto per la tematica politica, sotto cui vibra l’espressione di un dramma non soltanto politico, ma piú intensamente personale e di profondo valore spirituale e poetico.

Non che il sentimento amoroso sia un puro pretesto, ma esso, pur cosí fortemente attivo nell’animo del poeta, agisce soprattutto (nella sua particolare intonazione di tormento, di angoscia, nella propizia situazione della lontananza e della perdita del compenso consolatore della donna amata) come incentivo della fondamentale disposizione sentimentale e poetica dell’Alfieri a movimenti disperati e drammatici, aiuta il poeta a tradurre in immagini dolorose, in impeti di delusione, di tensione elegiaco-drammatica la sua essenziale ispirazione, tanto diversa dalle possibilità di rasserenamento, di disacerbata contemplazione lirica del Petrarca[28], tanto lontana da un costante recupero di intimo idillio nel vagheggiamento della immagine della donna amata. Come si può ben verificare nel bel sonetto 61, in cui la situazione particolare della lontananza (con una appropriata immagine dolorosa della Stolberg assimilata al proprio stato di «martíro», ad una vita di «pianti e guai») si confonde con una compiuta, efficacissima rappresentazione (ed è qui che la poesia fa sentire il suo accento piú profondo) della piú generale condizione dell’animo alfieriano, della dolorosa, scontenta esperienza alfieriana della vita («noja e dolor»), malinconica e sdegnosa, delusa e animata dal drammatico contrasto con il «mondo», «empio, traditor, mendace», «che i vizj apertamente onora»:

Non giunto a mezzo di mia vita ancora,

pur sazio e stanco del goder fallace

son di quest’empio, traditor, mendace

mondo, che i vizj apertamente onora.

Ma, se noja e dolor cosí mi accora,

perché non cerco la immutabil pace

là dove in boschi solitaria giace,

e di vergini rose il crin s’infiora?

Ritrarmi in porto, ove in tempesta ria

vittima (oimè) di stolte ingiuste voglie,

vive fra i pianti e guai la donna mia?

Non fia, no, mai: qual piú martíro accoglie,

piú grata a me stanza piacevol fia:

sol m’è pace il divider le sue doglie.[29]

Dove ben si sente come questa rappresentazione superi per intensità e per interesse quella della precisa condizione immediata, e come quest’ultima serva soprattutto a motivare la prima, tanto piú assoluta e fondamentale, tanto piú energica nella designazione poetica della delusione del poeta e del suo sdegno contro il disvalore della realtà, contro quel «mondo»[30] a cui l’Alfieri applica con una tecnica cosí sua gli aggettivi piú energici e dispregiativi: tecnica di intensificazione che supera la stessa normale misura dell’aggettivazione e il normale rapporto fra nome e aggettivo.

Ed anche quando l’Alfieri tenterà, con assoluto insuccesso, aperti motivi idillici cosí estranei alla sua ispirazione, come nel sonetto 62, la stessa visione idillica cosí scialba e arcadica («frutti non compri, in praticel giocondo, / far nostro cibo, e ber dell’onda pura») si concluderà in un moto di sdegno e di contrasto che è la vera anima di questo sonetto, la sua punta piú alfieriana e coerente alla poesia delle Rime: «e l’anima secura / non volger mai ver l’ammorbato mondo»[31]. Come convenzionali e languide erano le espressioni usate per il vagheggiamento idillico, cosí nuova, intensa, originale (e persino apparentemente prosaica in un insolito uso poetico dell’aggettivo violento[32]) è quella con cui si traduce (in un moto a rilievo che rompe l’inclinazione distensiva) l’aspra designazione dell’«ammorbato mondo», la rappresentazione rapida e incisiva di uno stato d’animo piú profondo e genuino, trasferito nella stessa immagine di pace e di felicità.

E mentre le immagini liete e idilliche del paesaggio si convertono piú spesso in immagini selvagge ed aspre (il paesaggio doloroso, congeniale all’animo doloroso, come avviene nel sonetto 63, che esprime originalmente un tipico moto alfieriano di ira contro le immagini idilliche che sembrano insultare con la loro letizia alla sua condizione drammatica), lo stesso moto impaziente del poeta, che vuole la natura simile a sé e al suo tormento, supera per intensità la stessa occasione che lo stimola (la privazione della donna amata), e l’esclamazione dolorosa («Pace e letizia son dal mondo in bando»[33]) allude, con il suo suono assoluto e perentorio, ad una intuizione pessimistica della vita piú totale e profonda della precisa condizione del suo tormento amoroso: che pur tanto è necessaria alla concreta, particolare espressione della scontentezza, dell’ira e malinconia originalmente presenti nell’animo del poeta, ma bisognose, per esprimersi, di un’occasione concreta, di una situazione particolare sollecitante. Anche se a volte questa è ridotta ai suoi termini minimi, sotto la compiuta pienezza della rappresentazione dei sentimenti fondamentali a cui essa dà l’avvio.

Esemplare in tal senso è il sonetto 65, la cui conclusione, con il preciso riferimento all’occasione amorosa, fu del resto aggiunta solo in un secondo tempo (come l’Alfieri scrisse sul manoscritto), quasi che il poeta avesse stentato a trovare il modo di accordare quell’esplicito riconoscimento dell’occasione con il potente, assoluto dialogo interiore con la personificazione (e le personificazioni, i miti, le immagini piú potenti e solide dei suoi sonetti sono spesso i suoi stessi sentimenti piú che l’immagine della donna amata) della malinconia che lo occupa e lo tormenta[34] in una tetra, allucinata visione del proprio animo: unico seggio di quella “furia atroce”, destinato ad una vita di perenne dolore, di «insopportabil noia» ben piú dalla propria natura che non dalla vicenda biografica che pure sollecita il poeta, nella tensione dolorosa che essa provoca e nell’analisi psicologica cui essa lo avvia:

Malinconia, perché un tuo solo seggio

questo mio core misero ti fai?

Supplichevol, tremante ancor tel chieggio;

deh! quando tregua al mio pianger darai?

L’atra pompa del tuo feral corteggio

ben tutta in me tu dispiegasti ormai:

infra larve di morte, or di’, mi deggio

viver morendo ognor, né morir mai?

Malinconia, che vuoi? ch’io ponga fine

a questa lunga insopportabil noja,

pria che il dolor giunga a imbiancarmi il crine?

Dunque ogni speme di futura gioia,

che Amor mi mostra in due luci divine,

caccia; e fa’ ch’una intera volta io muoja.[35]

Tensione ed analisi piú spesso, in sonetti meno ispirati e piú disposti in forma di aperto diario amoroso-psicologico, si risolvono in balenanti fulminei scatti dolorosi che traducono l’impazienza del poeta a sopportare una vita senza compensi («A che piú tardo omai? che piú sopporto / l’orrida vita in sí mortal cordoglio?», sonetto 68[36]), in richieste a se stesso di una spietata sincerità di autoanalisi («Cor mio, che fu? ragion ne voglio intera», sonetto 69[37]), in conferme vibranti dell’altezza e violenza dei propri sentimenti («Alta è la fiamma che il mio cuor consuma», sonetto 66[38]), in dense e appassionate definizioni dell’assoluta pienezza della sua vita amorosa («com’uom che tutto in altri vive», sonetto 71[39]).

Ma questi momenti alti (che bastano di per sé a giustificare la nostra attenzione anche per sonetti meno ispirati e ci assicurano insieme di una costante base di intensità delle rime di questo periodo e della radice piú profonda dei momenti piú sinceramente alfieriani) non trovano adeguata forza e compattezza nel resto di quei «componimenti», anche se l’Alfieri ha superato ormai la tentazione di forme galanti-edonistiche, di concessioni idilliche, e regge comunque i suoi sonetti in forme generali piú sue, in una generale estrema finezza e nobiltà sentimentale, su di un piano di dignità poetica anche se non di grande poesia: oltreché con una varietà di movimenti psicologici che indubbiamente arricchiscono comunque la nostra conoscenza della vita interiore alfieriana e delle complesse possibilità della sua poesia.

Ben altro è il risultato poetico quando l’Alfieri riesce a trovare nell’occasione una ispirazione piú profonda e adeguata all’espressione dei suoi sentimenti piú assoluti, riesce a istituire un dialogo drammatico con i propri miti piú intimi. Come avviene nel ricordato sonetto 65 alla malinconia, cosí intero, coerente nell’incalzante svolgersi delle ansiose interrogazioni, nell’originalissima forza delle immagini senza colore, tutte affidate all’estrema energia del sentimento cupo, doloroso, funereo («L’atra pompa del tuo feral corteggio / ben tutta in me tu dispiegasti ormai»[40]), nella assoluta perentorietà di espressioni vigorose in cui la forza drammatica del contrasto doloroso costituisce una specie di originalissimo, alfieriano concettismo: «Viver morendo ognor, né morir mai». O come avviene nel sonetto 72, in cui è da osservare anzitutto il caratteristico, violento apparire dell’immagine della morte che risponde, come mito piú vero dell’animo alfieriano, alla invocazione alla donna amata, e imposta tutto uno svolgimento di immagini tetre, ossessive, di aspirazione alla pace della tomba entro l’atmosfera congeniale di una cupa chiesa «antica» e piena di avelli[41], nell’intensa contemplazione di una tomba che chiude un «par d’alti amanti» (ma la contemplazione è effettivamente un assoluto, avido immergersi nella visione affascinante, sottolineato dal procedere ardente del verso, dal verbo fortissimo, cosí caro all’Alfieri e cosí coerente alle immagini funebri di tutto il sonetto: «E tosto ivi entro le luci ho sepolte»), nel succedersi dell’impeto del grido che esalta quella tragica felicità, accentuata dal contrasto con il «mondo infido» della interrogazione movimentata e drammatica («continua guerra», «d’uno in altro lido»), della clausola bramosa e tetra che suggella questo potente desiderio di unione assoluta nella morte:

Te chiamo a nome il dí ben mille volte;

ed in tua vece, Morte a me risponde:

Morte, che me di là dalle triste onde

di Stige appella, in guise orride e molte.

Cerco talor sotto le arcate volte

d’antico tempio, ove d’avelli abbonde,

se alcun par d’alti amanti un asso asconde,

e tosto ivi entro le luci ho sepolte:

sforzato poi da immenso duolo, io grido:

felici, o voi, cui breve spazio serra,

cui piú non toglie pace il mondo infido! –

È vita questa, che in continua guerra

meniam disgiunti, d’uno in altro lido?

Meglio indivisi fia giacer sotterra.[42]

E questa sicura conquista di una salda base drammatica nei sonetti permette all’Alfieri di esprimere anche sentimenti in se stessi meno drammatici, moti di sentimenti piú teneri e affettuosi, di fantasia piú libera e varia, elementi del suo animo intenso e complesso, bisognoso di affetti, ricco di una vita umanissima pur dentro il rigoroso cerchio della sua scelta esigente di uomini e oggetti della sua simpatia, capace persino di un’attenzione alla realtà quotidiana e familiare troppo facilmente negata da chi parte dall’immagine piú convenzionale di un Alfieri solamente corrucciato e tragico, e invece confortata particolarmente proprio dalle rime e dalle lettere, la cui lettura tanto arricchisce la nostra conoscenza di questa grande personalità e della sua vita intima[43].

Si legga cosí il sonetto 70, in cui il centro drammatico e dolente («egro di core, d’animo, e di mente») si accorda agevolmente con l’immagine fantastica, aerea della caccia («il cervo rapidissimo fuggente»), con quella dolcissima e carezzevole del cavallo cavalcato dalla d’Albany («e tu, pien d’intelletto, / del caro peso te ne andavi altero»), con affettuosa invocazione del diletto «Fido, destriero mansüeto e ardente», in un dialogo tenero e nobile che solleva e umanizza il cavallo senza nulla di lezioso e di convenzionale[44]. Ché lo stesso Fido[45] rientra facilmente in questo mondo di affetti teneri, ma mai banali e mediocri, per lo stesso accordo cosí significativo di qualità (mansueto e ardente) con cui l’Alfieri esprimeva quell’ideale di una umanità sensibile, gentile e insieme fiera e dotata di «forte sentire», che tanto meglio si precisa in questi anni in un arricchimento piú umano del suo animo eroico e tragico.

Naturalmente l’accento poetico piú forte delle rime, specie in questo gruppo compatto e continuo dell’83, batte sugli elementi piú intensamente drammatici e la posizione del poeta è piú costantemente caratterizzata dal tormento della lontananza (presente del resto anche nel sonetto a Fido), dallo sdegno e dal contrasto con il «mondo» e con i suoi vari aspetti di decadenza dei valori. Cosí si spiega il violento attacco a Genova nel sonetto 76, all’Italia nel sonetto 77, la sdegnosa distinzione delle proprie rime d’amore dai «lunghi e freddi sospir d’amor volgari» del sonetto 82[46] e del sonetto 96 che, mentre ribadiscono il particolare valore di sincerità e di originalità sentimentale, se non di grande poesia, che l’Alfieri attribuiva alle rime[47] («Ch’io, se non altro, ardentemente amava», son. 82, v. 14), indicano anche bene (nella polemica con il secolo «niente poetico, e tanto ragionatore», con la letteratura italiana lontana dalla sua grande tradizione e priva soprattutto di «forte sentire») il centro animatore della poetica delle rime, basata sulla profondità, sincerità e potenza del sentimento, sulla novità del contenuto sentimentale, sulla fedeltà alla piú profonda realtà autobiografica, sulla poesia come intensificazione di stati d’animo drammatici, su di una nuova armonia ed equilibrio raggiunti con la tensione e la forza.

Elementi di poetica già tradotti in adeguati procedimenti espressivi e ora (dopo questa specie di presa di coscienza piú esplicita e persino esagerata nell’eccessiva svalutazione dell’arte che tanto invece l’Alfieri calcolò nell’intenso, arduo esercizio poetico di queste rime) potentemente realizzati in un grande sonetto, l’89 (2 novembre 1783), nel quale la tensione di tutto quel periodo trova la sua espressione superiore, la sua perfetta misura e quella particolare calma sulla forza, nell’approfondimento lirico dello stesso sentimento doloroso che permettono al poeta una rappresentazione intera e meno tumultuosa di se stesso, dei suoi sentimenti fondamentali e delle particolari condizioni della sua vita intima di quel periodo entro un quadro perfetto ed organico:

Là dove muta solitaria dura

piacque al gran Bruno instituir la vita,

a passo lento, per irta salita,

mesto vo; la mestizia è in me natura.

Ma vi si aggiunge un’amorosa cura,

che mi tien l’alma in pianto seppellita,

sí che non trovo io mai spiaggia romita

quanto il vorrebbe la mia mente oscura.

Pur questi orridi massi, e queste nere

selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti

acque or mi fan con piú sapor dolere.

Non d’intender tai gioje ogni uom si vanti:

le mie angosce sol creder potran vere

gli ardenti vati, e gl’infelici amanti.[48]

Tutti gli elementi sentimentali precedentemente notati ritornano singolarmente forti e piú chiaramente articolati nel loro reciproco rapporto, tutti i procedimenti espressivi delle precedenti rime vengono applicati con coerenza e preciso impiego della loro funzione. Il sentimento della malinconia si precisa nella doppia validità di un sentimento legato ad un’occasione e ad un paesaggio sollecitanti, e di una radicale disposizione dell’animo alfieriano: «la mestizia è in me natura». Il tormento amoroso della lontananza raggiunge la sua chiarezza di forza e di superiore, limpida rappresentazione («amorosa cura» e «l’alma in pianto seppellita»); il sentimento doloroso si approfondisce in un piacere del dolore nella solitudine; il mondo di eccezione si esalta e si definisce nell’unione piú alta dei valori che lo compongono (poesia grande e amore infelice: «gli ardenti vati, e gl’infelici amanti»), saldando insieme il senso alfieriano dell’eroismo e della sventura, le componenti del suo entusiasmo, del suo pessimismo, della sua compassione per sorti alte ed infelici.

E soprattutto il sentimento doloroso trova un suo superamento in una impressione di voluttà malinconica ed eccezionale perdendo i caratteri piú aspri, immediati e pratici dello sfogo, mentre il paesaggio selvaggio e solitario collabora continuamente con la espressione dei motivi piú intimi: vero paesaggio come proiezione dell’animo in senso ormai decisamente romantico.

Tutto il sonetto svolge ed articola coerentemente il motivo ispiratore cosí sicuro e complesso, nelle sue successive esplicazioni. Prima la rappresentazione del personaggio nel suo procedere faticoso e mesto nel paesaggio aspro e solitario, cui si aggiunge lo stimolo del coerente vagheggiamento di un genere di vita «muta solitaria dura». E le parole si dispongono coerentemente lente, massicce, energiche, scandite in un ritmo aspro e assorto, severo, fino alla clausola staccata della prima quartina che porta ad espressione assoluta la nota piú intima, l’affermazione della mestizia nativa del poeta.

Poi, nella seconda quartina, un movimento piú largo aggiunge il motivo dell’«amorosa cura» che accresce la mestizia del poeta (e il verbo funebre, assoluto, già notato nel sonetto 82, assicura il tono intensificato del dolore) e il suo naturale desiderio di solitudine.

Poi il superbo svolgersi del motivo ispiratore nella sua forma piú particolare (il piacere del dolore nella solitudine selvaggia e sollecitante: pene d’amore e solitudine unificate nella voluttà dolorosa che ne ricava il poeta nella sua naturale disposizione di mestizia), nell’accompagnamento cupamente immaginoso e sonoro del paesaggio sempre piú evocato, non descritto, come espressione coerente dell’animo voluttuoso-doloroso e accentuato dall’intenso procedere (verso le parole che rivelano particolare sentimento: «con piú sapor dolere») dei numerosi membri della terzina, con un crescendo di suoni e di immagini, con un energico ritmo di brevi, pesanti membri, scanditi e collegati al di là della normale misura del verso, dai vigorosi enjambements.

Infine, sulla base di questa potente musica (la piú vera musica alfieriana, la sua vera armonia malinconica e drammatica), di questo paesaggio congeniale, l’ultimo movimento esalta la eccezionalità del sentimento voluttuoso-doloroso (gioie-angosce) e la partecipazione del poeta a quel mondo superiore che tante volte nei precedenti sonetti aveva piú parzialmente esaltato, e che qui trova la sua definizione piú profonda chiudendo il sonetto con una clausola lirica vibrante, impetuosa e compatta.

Anche le correzioni che, sulla base di una prima forma già altissima, portarono alla sua forma definitiva, sono una riprova della poetica della intensificazione, dell’equilibrio in tensione, della misura ottenuta con il rafforzamento di tutte le parti e delle singole parole nel loro vigore intimo e nel loro suono compatto ed energetico, con l’articolazione intensa del ritmo, numeroso di accenti, nuovissimo nell’uso delle forti cesure e delle pause. Cosí al verso 4 la forma piú continua «mesto vo; che mestizia è in me natura» è spezzata dalla pausa: «la mestizia», che rileva e stacca con maggiore potenza l’affermazione fondamentale della prima quartina e la fa vibrare sulla preparazione di un breve, assorto silenzio. E l’inserimento al verso 7 di «io» e al verso 11 di «or», prima mancanti, rende quei due versi piú ricchi di accenti e di parole, e mentre nel primo caso porta la rilevata presenza esplicita del soggetto di quel doloroso bisogno di solitudine, nel secondo accentua la singolarità della voluttà del dolore con la distinzione del tempo e infittisce il giuoco energico dei suoni aspri. Cosí come, al verso 9, la preferenza di «massi» a «rupi» corrisponde alla ricerca di una parola piú densa e pesante che porta un’intensa assonanza con gli «abissi» del verso seguente.

Mentre il finale acquistò una perentoria chiarezza e pienezza nella sostituzione della forma definitiva («le mie angosce sol creder potran vere / gli ardenti vati, e gl’infelici amanti») a quella precedente piú incerta e priva dell’energico contrappeso delle due coppie di aggettivi-sostantivi: «le mie angosce sapran quanto sien fere / sol gl’infelici, ardenti, e rari amanti». E, in questo caso, l’ampliamento del riferimento agli «ardenti vati» oltre che agl’«infelici amanti» è una vera nuova intuizione che mostra come il lavoro di rielaborazione sia anche per le Rime non solo attenzione a particolari (e comunque non per generiche ragioni di ripulitura, ma alla luce di una precisa poetica meglio applicata ad ogni particolare), bensí vera ripresa ispirativa, capace di far scaturire nitidi e pieni elementi prima piú incerti.

Nella solitudine propizia della Certosa di Grenoble l’Alfieri compose un altro sonetto, il 90[49], ricco di temi e di movimenti intensi: lo sdegno per il «vile ozio devoto», che non esclude l’ammirazione per S. Brunone, fondatore di una regola il cui aspetto duro ed eroico aveva affascinato l’Alfieri nel precedente sonetto; l’impeto contro l’«empio mondo traditore» e il tema della sazietà della vita nella sua monotonia e «aspra noja»; il dilemma energico delle due terzine, in cui sulla breve immagine idillica prevale quella piú congeniale e romantica della vita solitaria dell’esule e del suo desiderio della morte liberatrice e atteggiata in atto agonistico e drammatico[50]. Ma certamente lontano dalla organica ispirazione del precedente, in cui sembra essersi esaurita la forza piú pura di questo periodo, che si chiude con pochi altri sonetti del novembre 1783. Fra i quali notevoli il già ricordato 96, il 93 e il 94 che svolgono come un unico motivo: il desiderio di una morte liberatrice da un mondo in cui il bene non «agguaglia il male», da una vita che appare senza gloria e senza futura felicità («mai non verrà quel dí, che ti conforte»[51]), e il soprassalto doloroso nel pensiero che la morte del poeta implicherebbe o la morte della donna amata, o una sua vita peggiore della morte.

Motivo che tanto ossessionò l’Alfieri, ed è cosí profondo nella sua sensibilissima vita d’affetti (il problema del sopravvivere alla persona amata, che poi il Leopardi sentirà come una delle piú crudeli necessità imposte dalla natura agli uomini[52]), ma che nel sonetto 94, dopo il bel movimento iniziale e la forza della prima terzina che accentua il valore tormentoso, tragico di una simile impossibilità di scegliere la morte liberatrice per chi è legato da un vincolo d’amore («Misero me, cui rio destino implíca / d’inestricabil non frangibil nodo!»[53]: che è anche uno degli elementi della tragica situazione di Saul), si risolve in un contorto, impoetico bisticcio. Come avviene con una caduta concettistico-galante tanto piú grave e completa nel sonetto 97, che pure ci offre un verso cosí potentemente alfieriano («Uom, che dal nostro carcere si sferra»[54]) a tradurre l’ansia di liberazione del poeta dai vincoli limitativi della sorte e della natura umana[55].

Dopo un lungo intervallo di mesi (durante i quali furono scritti solo pochissimi sonetti, fra i quali notevole il 99, che esalta il perduto conforto dell’amicizia nel quale l’uomo sfoga le sue pene narrandole a persona capace di capirle per simile sensibilità ed esperienza[56], in contrasto con la freddezza degli inglesi, fra i quali in quel momento l’Alfieri si trovava[57]), l’attività poetica alfieriana ebbe una nuova ripresa nell’estate dell’84 a Siena (la città delle sue amicizie e della diletta, pura lingua toscana), la cui immagine, il cui ricordo affettuoso e piacevole tante volte ritornano nelle lettere alfieriane irrorate di una tenerezza e persino di un sorriso piú affabile e scherzoso, cosí efficace già nel sonetto 112: uno di quelli che piú si adatta al «lenimento del superuomo» di cui parlava il Croce e che può mostrare le possibilità dell’Alfieri in direzioni meno centrali ed intense eppur non aliene dalla sua ricca disponibilità poetica[58].

Ma anche qui il centro della ripresa non è certo il sentimento di agio, o «almen» di «quiete», provato dall’Alfieri nel ritrovarsi fra gli amici senesi, in una città amata e propizia a toni piú pacati e indulgenti; e proprio nei due mesi passati a Siena la poesia delle Rime ha un nuovo impulso energico e drammatico nel sonetto 107, in cui tutta la forza del sentimento e della fantasia dolorosa si concentra nel bellissimo inizio (uno dei versi piú originali e potenti dell’Alfieri, una cupa, ossessiva immagine dolorosa: una campana a morto che martella «sul» cuore del poeta e ne scatena la eccitata sensibilità) e si svolge in una dolente fantasticheria funebre (la donna amata «egra giacente all’orlo della vita») concludendosi nell’impeto risentito, fra l’interrogazione improvvisamente eretta a tradurre l’assurdità di una sopravvivenza del poeta alla propria donna e l’affermazione risoluta della propria decisione di precederla nella morte:

Quel tetro bronzo che sul cuor mi suona,

e a raddoppiar mie lagrime m’invita,

ogni mio senso istupidito introna,

e mi ha la fantasia dal ver partita.

Di lei, che lungi sol dagli occhi è gita,

parmi ch’io veggo la gentil persona

egra giacente all’orlo della vita,

che in questo pianto or solo mi abbandona.

E in flebil voce: o mio fedel (mi dice)

di te mi duol; che de’ sospir tuoi tanti

nulla ti resta, che vita infelice.

Vita? no, mai. Dietro a’ tuoi passi santi

io mossi, ove al ben far m’eri radice;

ma al passo estremo, irne a me spetta avanti.[59]

Di nuovo la «lontananza» funziona come stimolo di una rappresentazione drammatica dell’animo dolente e irrequieto, come dolente e irrequieta è l’immagine di una vita errabonda e senza scopo di cui l’Alfieri, pur assegnandone una precisa ragione – la perdita della donna amata – intuisce poeticamente la ragione piú profonda: la sua nativa scontentezza, la delusione di ogni presente, l’illusorio e tormentoso miraggio di una mèta felice che sempre gli sfugge e che egli stesso respinge continuamente davanti a sé nella sua impossibilità di godere un bene attuale e posseduto. Situazione espressa nel sonetto 108, che cosí bene realizza la rappresentazione dell’animo del poeta «d’atri pensieri irrequieti pieno» (quasi una coincidenza dell’autobiografia alfieriana con certi potenti scorci dell’animo irrequieto di Saul), della sua vita errabonda e infelice («Misera vita strascino ed errante»[60]), della sua vana corsa dietro un bene reso irraggiungibile dalla sua stessa scontentezza, dalla sua tendenza a non goder del presente. E il ritmo la traduce perfettamente con l’incontro di un enjambement affannoso e di scatti violenti sottolineati dalle pause dopo gli inizi dei versi nella seconda, bellissima quartina:

Le pene mie lunghissime son tante,

ch’io non potria giammai dirtele appieno.

D’atri pensieri irrequïeti pieno,

neppure io ’l so, dove fermar mie piante.

Misera vita strascíno ed errante;

dov’io non son, quello il miglior terreno

parmi; e quel ch’io non spiro, aere sereno

sol chiamo; e il bene ognor mi caccio innante:

s’anco incontro un piacer semplice e puro,

un lieto colle, un praticello, un fonte,

dolor ne traggo e pensamento oscuro.

Meco non sei: tutte mie angosce conte

son da quest’una; ed a narrarti il duro

mio stato, sol mie lagrime son pronte.[61]

Su questo avvio potente si snoda un nuovo gruppo di sonetti, scritti nel viaggio che lentamente riavvicina l’Alfieri alla d’Albany e che pure, invece di allietarlo, offriva alla sua dolente fantasia pretesti di sdegno contro il secolo decaduto: il sonetto 116, che volge un nuovo omaggio alla grandezza del Petrarca in una violenta, impaziente invettiva contro gli italiani moderni che piú non lo comprendono e accrescono smisuratamente quel senso di amara delusione per il proprio tempo che già il Petrarca aveva cantato; e il sonetto 110, in cui l’appassionato elogio per la lingua toscana serve in realtà a ribadire il «lezzo» del mondo appena «temprato» da quel perfetto linguaggio e a suggerire un nuovo movimento di sdegno contro i toscani degeneri a cui è rimasto solo il pregio della loro lingua musicale. Mentre il viaggio suggeriva immagini tormentose di incertezza, di ansia per la sua donna, che, quanto piú gli si avvicina, tanto piú gli appare in pericolo, insidiata da possibilità di malattia e di morte. Come significativamente precisa il sonetto 119, che sviluppa quell’atteggiamento di introspezione, di analisi e rilievo poetico di elementi costanti dell’animo alfieriano: qui, la disposizione a tormentarsi, a crearsi mali immaginari anche quando le vicende biografiche dovrebbero provocare letizia: «Ingegnoso nemico di me stesso»[62].

Ma la fantasia dolorosa ha pure momenti di passeggero sollievo e compenso, come nel sonetto 131, che oppone una visione dolce e affettuosa a quelle predominanti nei sonetti composti dopo il nuovo allontanamento dalla donna amata, alla fine dell’84: specie il 126, che unisce al motivo della lontananza quello della perdita dell’amico piú caro, il Gori Gandellini, cantata nel sonetto 125[63]. E il poeta può accordare intensità dolorosa, superiore calma malinconica e contemplazione di immagini consolatrici, anche se illusorie, come avviene nel grande sonetto 135, scritto a Marina di Pisa il 4 gennaio 1785:

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva

al mar là dove il Tosco fiume ha foce,

con Fido il mio destrier pian pian men giva;

e muggían l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva

il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)

d’alta malinconia; ma grata, e priva

di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso

nella pacata fantasia piovea;

e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, ancora parea

cavalcando venirne a me dappresso...

Nullo error mai felice al par mi fea.[64]

In questo sonetto infatti il motivo ispiratore è la dolcezza di una malinconia profonda, assorta, ma priva dello sfogo piú pratico del pianto (sospiro, non affanno), capace di tradursi in una immagine intensa, ma dolce, in un «error», in una illusione che, pur in questo suo carattere illusorio ben consapevole, ha la forza di una superiore realtà consolatrice.

E il paesaggio tempestoso e solitario, la cui energia estrema è potentemente controllata e contenuta (al solito, equilibrio sulla forza e sulla tensione), mentre assicura la solida base drammatica necessaria sempre alla grande poesia alfieriana, sorregge qui non un tormentoso sfogo, ma un movimento di profonda intimità, il commutarsi del dolore in un «dolce oblio» delle pene del poeta, in un’immagine perfetta e pur mossa (e ben lontana sempre dalle condizioni di un vagheggiamento edonistico e puramente idillico), gentile, ma nobile e aristocratica, coerente all’eletto mondo di eccezione in cui anche la felicità si configura per l’Alfieri, coerente alla originalità potente delle sue immagini cosí schiettamente romantiche e diverse da ogni forma di immagine poetica o figurativa del Settecento. Ché anche da questo punto di vista questo perfetto sonetto presenta una singolare novità di immagini: l’immagine romantica del cavaliere solitario e poi la coppia di cavaliere e di amazzone erranti lungo le rive deserte del mare invernale in tempesta.

La collaborazione fra paesaggio e sentimento interiore è qui perfetta e il quadro con cui il sonetto si apre (intensissimo già nella presentazione del personaggio che riprende un celebre inizio petrarchesco: «Solo e pensoso i piú deserti campi», e lo trasforma nella diversissima collocazione forte della parola iniziale isolata e nella diversa tensione del verso, ricco di accenti, di pause, di rilievi delle singole parti, e poi approfondito nella rappresentazione del mare in tempesta accordato con la tensione estrema dell’animo ardente di una passione «inestinguibile»[65]) si armonizza mirabilmente con il quadro immaginato che chiude il sonetto in una perfetta proporzione e corrispondenza delle sue varie parti. E sull’avvio piú sognato e pacato dell’«alta malinconia; ma grata, e priva / di quel suo pianger, che pur tanto nuoce», in quell’aura assorta di «pacata fantasia» (una calma che sorge non da una distensione, ma anzi al culmine di un’intensa eccitazione), recupera l’essenziale movimento esterno ed interno del primo quadro[66].

Il tema della malinconia ha qui trovato un’espressione poetica altissima e intima, mentre si ripercuote in forme piú apertamente psicologiche e drammatiche di sfogo nel sonetto 137 che accentua, con immagini piú esteriori, lo stato di noia, di languore del poeta privo del suo bene (e indaga la sua condizione di desiderio della morte e di impossibilità di darsela, trattenuto dal pensiero dell’amata e dalle illusorie speranze di una lontana felicità), e nel sonetto 138, che riprende il tema[67] in un impeto di autoritratto doloroso, efficace, ma piú dispersivo ed analitico nel tumulto della sua contraddizione vitale risentita, nel suo aspetto piú amaro e delusivo, nel rimpianto di una forza perduta di studio e di alta poesia.

E veramente, dopo queste rime e dopo l’ideazione delle tragedie dell’84, completate solo piú tardi, la forza poetica alfieriana subisce una sensibile diminuzione, in un anno che l’Alfieri ricordava come uno dei piú desolati e oziosi della sua vita[68]: pochi sonetti si succedono fino alla nuova ripresa dell’86, quando essi si intrecciano con la stesura della Mirra, con la composizione del dialogo La Virtú sconosciuta e con il completamento del trattato Del Principe e delle lettere. E sono sonetti piú deboli e dispersivi, fra esercizi satirici piú diluiti (il 143 contro le varie città italiane, o il 145, piú efficace nel tono fra scherzoso ed iroso esercitato contro i «grossi» tedeschi, il loro linguaggio disarmonico, la lentezza delle loro poste provata durante un nuovo viaggio verso l’Alsazia e il castello di Martinsbourg, dove risiedeva la d’Albany) e forme di narrazione diaristica tanto piú riuscita fuori della difficile misura del sonetto nelle lettere di questo periodo: e si può confrontare, a tale proposito, il sonetto 140 con la lettera al Bianchi del 22 luglio 1785, tanto piú sicura e completa nell’impasto efficacissimo di sorriso e di amarezza, di modi narrativi ed agevoli e di finissimo rilievo autoironico e dolente[69].

Nel nuovo gruppo di rime del 1786 (una trentina di sonetti, con un momento di particolare intensità e continuità nell’agosto e culminante in un nuovo grande sonetto, il 173) si trovano sonetti piú diaristici, fra i quali soprattutto notevoli quelli per la malattia e per la morte di Fido: il 148, cosí efficace nella rappresentazione delicata e trepida del bel destriero malato a morte – «Pieno ha l’occhio di morte» – e pur nobilitato dal coraggio che il poeta ammira in lui: «Ei muor, qual visse, intrepido animoso»[70]; il 149, che esalta con un movimento di fantasia pienamente alfieriana l’improvviso miglioramento del cavallo in una fervida e affettuosa immagine di vitalità e di gentilezza»[71]; il 156, cosí dolente, umano nel dialogo estremo con il diletto destriero «mansüeto ardente» che il poeta è costretto a far uccidere per liberarlo dalla malattia dolorosa e incurabile. Ma insieme prevalgono nuove intense espressioni liriche della situazione del poeta che ha superato, nella nuova attività tragica e nella nuova esperienza della consolazione dell’amore, il senso piú avvilente dell’ozio malinconico.

E il poeta apprezza sempre meglio il valore di alti sentimenti consolatori (Gloria[72] e Amore), anche se perciò insieme sente tanto piú dolorosamente la difficoltà del loro saldo possesso, il rimpianto della loro perdita nelle nuove lontananze dalla donna amata. Alternarsi di sentimenti consolatori e dolorosi che trova espressione nei sonetti scritti appunto in un nuovo periodo di lontananza: il 150, che riepiloga la condizione propizia del soggiorno alsaziano[73]; il 157, che canta una condizione di dolore alleviato dalla speranza e il contrasto fra il ritorno della primavera e la scomparsa delle sue speranze di un rapido ritorno presso la donna amata; il 155, che condensa in forme piú assolute e profonde lo stato d’animo del poeta preso fra speranze e timori, fra rimpianti e dolore, fra brama e scontentezza, e accorda, in un autoritratto compiuto e vibrante, il senso esaltante e tormentoso dei valori meglio individuati in questo periodo («Gloria e Amore a me sien Dio»; «nulla ho d’ambi finor, che i lor furori») e il riepilogo di una vita segnata dalla scontentezza, dallo squilibrio fra desideri e realtà, dalla tensione radicalmente inappagabile verso beni che la saggezza (anch’essa piú oggetto di desiderio che vero possesso e condizione di vecchiaia, non di operosa gioventú[74]) verifica illusori:

Sperar, temere, rimembrar, dolersi;

sempre bramar, non appagarsi mai;

dietro al ben falso sospirare assai,

né il ver (che ognun l’ha in sé) giammai godersi:

spesso da piú, talor da men tenersi,

né appien conoscer sé, che in braccio a’ guai:

e, giunto all’orlo del sepolcro omai,

della mal spesa vita ravvedersi:

tal, credo, è l’uomo; o tale almen son io:

benché il core in ricchezze, o in vili onori,

non ponga; e Gloria e Amore a me sien Dio.

L’un mi fa di me stesso viver fuori;

dell’altra in me ritrammi il bel desio:

nulla ho d’ambi finor, che i lor furori.[75]

In questo bel sonetto ritornano gli elementi piú caratteristici della poesia alfieriana, il suo accento tormentoso, elegiaco-drammatico, che finisce sempre per colorare dolorosamente, pessimisticamente anche le immagini piú dolci, piú facilmente affioranti in certi momenti di maggiore attenzione alla bellezza della natura, al fascino della bellezza femminile-giovanile, particolarmente vivi in questo Alfieri piú maturo e complesso[76]. Ma un impeto di forza drammatica piú schietta e violenta e una piú aperta volontà di autorappresentazione intera e tragica superano la condizione piú varia di questi primi sonetti dell’86 nel gruppo intenso di sonetti dell’estate, aperto dal vero e proprio autoritratto del 167, portato alla massima violenza nel 169 e nel 172, concluso in alta poesia nel 173.

Il sonetto 167[77], che realizza una ricerca di autoritratto, vive nell’Alfieri sin dal rapido autoritratto giovanile nell’Esquisse du Jugement Universel e dall’ampia analisi dei Giornali (e del resto tutte le Rime hanno al fondo questa volontà e questo istinto di autorappresentazione che troverà poi svolgimento particolare nella Vita), ha un suo forte motivo ispiratore che va esplicandosi con maggiore energia e validità poetica verso il finale, in cui gli elementi piú intimi portano un accento piú profondo, dopo la prima parte troppo descrittiva ed enumerativa aggravata dal compiacimento del poeta per la propria bella persona[78] e dallo stesso desiderio di perfetta, minuta aderenza all’impegno iniziale: «Mostrami in corpo e in anima qual sono»[79].

Il motivo piú vero erompe di colpo nell’ultimo verso della descrizione fisica (proprio quando questa scendeva all’enumerazione piú minuta, compiaciuta ed esterna), che presenta una fulminea immagine tragica («pallido in volto, piú che un re sul trono»[80]) e introduce la nuova enumerazione delle qualità dell’«anima», tanto piú drammatica, mossa e ascendente negli accostamenti rapidi di qualità diverse, estreme e alternantisi («or duro, acerbo, ora pieghevol, mite»), nel rilievo impetuoso dell’ira e della generosità (sottolineato dall’accompagnamento perentorio del «sempre» e «mai»), nel tumultuoso finale della prima terzina: «la mente e il cor meco in perpetua lite». E se la ripresa ultima ha un avvio piú debole (e nel gusto del contrasto l’Alfieri finiva per conceder troppo al «lieto assai»), alto è il finale dilemmatico e conclusivo-esortativo che, sulla base di un acuto ed immaginoso riepilogo della tipica autoanalisi alfieriana (orgoglio e disprezzo di se stesso)[81], riprospetta l’ansia alfieriana di grandezza e di eroismo nel rapporto essenziale dell’uomo con la morte[82].

L’impeto autobiografico si accresce (abolita la parte piú esterna, ridotto l’autoritratto alle condizioni dell’animo nel suo aspetto piú drammatico) nel sonetto 169, in cui piú debole è viceversa la parte finale, che troppo vuol distinguere la forza delle «due fere donne» sull’animo dell’Alfieri e risolve in modo poco felice la ragione della malinconia nella semplice causa amorosa:

Due fere donne, anzi due furie atroci,

tor non mi posso (ahi misero!) dal fianco.

Ira è l’una, e i sanguigni suoi feroci

serpi mi avventa ognora al lato manco;

Malinconia dall’altro, hammi con voci

tetre offuscato l’intelletto e stanco:

ond’io null’altro che le Stigie foci

bramo, ed in morte sola il cor rinfranco.

Non perciò d’ira al flagellar rovente

cieco obbedisco io mai; ma, signor d’essa,

me sol le dono, e niun fuor ch’io la sente.

Non dell’altra cosí; che appien depressa

la fantasia mi tien, l’alma, e la mente...

A chi amor non conosce, insania espressa.[83]

E la violenza delle due potenti quartine, che esprimono l’ossessivo dominio di ira e malinconia nel loro aspetto piú tormentoso e sofferto, si riversa con una inaudita, selvaggia intensità nel sonetto 172, estrema, drammatica espressione dell’animo tormentato da ira e malinconia. E l’ira diviene un «furore» e «un pestifero angue» che strazia il cuore del poeta, malinconia diviene una «negra fantasia piena di sangue» che ha ormai aperto al poeta la via della morte privandolo di ogni immagine consolatrice. Punta estrema di una sensibilità eccitata e sfrenata e di una tecnica aspra e violenta che qui tocca l’eccesso e quasi la forzatura nell’impiego di procedimenti altrove piú contenuti e qui come esacerbati[84], al di là di quell’equilibrio nella forza e nella tensione che l’Alfieri ritroverà poco dopo nel sonetto 173:

Tante, sí spesse, sí lunghe, sí orribili

percosse or dammi iniquamente Amore,

che i mie’ martiri omai fatti insoffribili

mi van traendo appien del senno fuore.

Or (cieca scorta) odo il mio sol furore;

e d’un pestifero angue ascolto i sibili,

che mi addenta, e mi attosca e squarcia il cuore

in modi mille, oltre ogni dir terribili:

or, tra ferri e veleni, e avelli ed ombre,

la negra fantasia piena di sangue

le vie tutte di morte hammi disgombre:

or piango, e strido; indi, qual corpo esangue,

giaccio immobile; un velo atro m’ha ingombre

le luci; e sto, qual chi morendo langue.[85]

Come nei due grandi sonetti della Certosa di Grenoble e di Marina di Pisa, anche nel sonetto 173 si può subito notare come un sentimento di dolore, sollecitato dalla solitudine aspra e selvaggia di un paesaggio congeniale, si trasfiguri in una singolare condizione di «dolce tristezza» e addirittura qui di «calma e gioja»: non certo conquista di idillio (ché la base sentimentale e il paesaggio sono tutt’altro che idillici e distensivi), ma particolare approfondimento e assaporamento del dolore e della solitudine da cui di nuovo scaturisce un moto, che era vibrante ed esaltato nel sonetto della Certosa, e qui è piú complesso e pensoso nel piú vasto ambito di motivi che qui vengono riassunti (non tanto l’amore, quanto il rapporto con gli altri uomini, con il proprio tempo, con la tirannide) e che sono coerenti ai temi dell’autoanalisi e dell’autoritratto dominanti nei sonetti dell’86:

Tacito orror di solitaria selva

di sí dolce tristezza il cor mi bea,

che in essa al par di me non si ricrea

tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro piú il mio piè s’inselva,

tanto piú calma e gioja in me si crea;

onde membrando com’io là godea,

spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso

mende non vegga, e piú che in altri assai;

né ch’io mi creda al buon sentier piú appresso:

ma, non mi piacque il vil mio secol mai:

e dal pesante regal giogo oppresso,

sol nei deserti tacciono i miei guai.[86]

Di nuovo il paesaggio (un paesaggio preromantico senza il languore, le incertezze, le cadute canore di tanta letteratura dell’epoca) apre solidamente l’inizio del sonetto e sorregge le due quartine collaborando intimamente (paesaggio dell’anima e non descrizione pittoresca) con il primo sviluppo del motivo ispiratore («dolce tristezza» nella solitudine) in un doppio quadro: piú fermo ed assorto il primo, piú lentamente mosso e complesso il secondo. Nel primo (la prima quartina) si precisa l’aura silenziosa ed orrida della selva solitaria (dove sono le vaghe invocazioni che ornavano una selva solitaria nel sonetto CLXXVI del Petrarca[87]? dove quel piacere puramente melodico e prezioso della famosa canzonetta del Rolli Solitario bosco ombroso?), e la «dolce tristezza» del poeta si caratterizza nel paragone cosí insolito con il piacere selvaggio dell’«orrida belva». Nel secondo (la seconda quartina) si delinea il personaggio drammatico che raggiunge la sua speciale «calma e gioja» quanto piú si addentra nella selva orrida e solitaria[88], e che intensifica il suo particolare sentimento aggiungendo al suo “inselvarsi” reale il nuovo “rinselvarsi” nel ricordo. E le stesse rime che insistono nella parola base «selva»: «selva», «s’inselva», «si rinselva», corrispondono alla ricerca alfieriana di una intensificazione, non di una variazione, di pochi colori e suoni essenziali ripresi e caricati[89].

Poi, sulla base di questa prima parte cosí compiuta e cosí fortemente articolata, si svolge l’espressione di una profonda meditazione interiore, la giustificazione di quel sentimento di «dolce tristezza»., di «calma e gioia» in una solitudine selvaggia (e si pensi ai deserti dell’Aragona e alle sterminate distese ghiacciate del Nord nella Vita). Quel piacere nasce da un bisogno di solitudine e di assoluta separazione dagli uomini, non perché il poeta sia un misantropo e si consideri orgogliosamente perfetto e vicino piú degli altri ad un ideale assoluto di virtú, ma perché il suo «secolo» è «vile», dominato da una tirannia ch’egli solo non accetta. La meditazione si realizza nella sicura, assorta preparazione della prima terzina e poi si risolve piú energicamente in un vero grido dell’animo alfieriano: «ma, non mi piacque il vil mio secol mai», nel potente rilievo di un’angoscia pesante ed oppressiva, nella conclusiva e piú completa riaffermazione del motivo fondamentale del sonetto, lapidario e piú esplicitamente tragico-malinconico: «sol nei deserti tacciono i miei guai». La selva è diventata i «deserti», la «dolce tristezza» si è fatta piú assoluta e cupa: «tacciono i miei guai»[90].

E si noti come in questo sonetto, in cui l’Alfieri rappresenta un motivo fondamentale del suo animo e la sua incompatibilità con il «secolo» illuministico che egli giudicava privo di «forte sentire», di eroismo e di forte coscienza pessimistica, il tema amoroso sia assente e i suoi «guai» vengano riferiti appunto ad un piú generale stato di sofferenza “storica”, ad un doloroso contrasto con un «mondo fetido» di cui lo colpiscono soprattutto il «gelo» (come dice nel sonetto 179[91]), la mancanza di “passione”.

E di fronte a ciò egli adesso esalta lo stesso amore piú che in sé e per sé, e come causa delle sue rime, come generale prova di altezza sentimentale, di superiorità dell’anima appassionata e della poesia che desta passione e «con cui ponno mill’altre alme infiammarsi», come l’Alfieri dice nel sonetto 170[92], contrapponendo il proprio ideale di uomo e di poeta, dotato piú di sentimento che di ragione[93], al gelido razionalismo dei francesi (si vedano i sonetti 179 e 180[94]), che stan diventando in questi anni l’obiettivo della sua nuova polemica contro il secolo «niente poetico, e tanto ragionatore», della sua intensa contrapposizione degli uomini grandi (e siano magari anche i tiranni) e del volgo mediocre ed ottimistico.

In questa direzione, fra i sonetti dell’86 e i rari sonetti degli anni ’87-88 con i quali termina la prima parte delle Rime, vanno notati i sonetti 162, 171, 185, in cui si esprime anzitutto l’ansia di grandezza eroica dell’Alfieri che spezza in qualche modo il rigido contrasto tiranno-uomo libero, ritrovando grandezza anche nel tiranno odiato in grazia della sua potente tensione alla gloria, all’«immortal vita seconda»[95], che per l’Alfieri è sempre piú un paradiso di uomini gloriosi che non un oltremondo cristiano (come avviene nel 162, potente meditazione poetica sulla morte di Federico II, «macchiato di assoluto regno» ma forse degno di «non nascer re», vv. 12 e 14). E contemporaneamente si svolgono una ardente commemorazione dell’uomo grande e infelice (il Tasso del sonetto 185, a cui Roma negò tomba in S. Pietro, pieno invece di tombe di papi, «turba di morti che non fur mai vivi»[96]) e la meditazione appassionata sulla morte eroica e gloriosa con cui l’uomo esalta la propria grandezza e rompe i vincoli limitativi della propria natura corporea cosí tormentosamente avvertiti dall’Alfieri. Meditazione che raggiunge tanta altezza poetica nel grido doloroso di Annibale (sonetto 171) il quale, nella morte ingloriosa presso il re Prusia, avrebbe, nell’immaginosa trasfigurazione alfieriana, rimpianto l’occasione perduta a Canne di morire eroico e vittorioso: «Canne, a mia fama adamantina scudo, / oh, ne’ tuoi campi dal mio carcer schiuso / mi fossi! or non morrei di gloria ignudo»[97].

Grandezza e miseria degli uomini è il tema che piú affascina l’Alfieri di questo periodo. Miseria della natura umana nei suoi limiti corporei, cosí avvilenti e pesanti, e nella sua stessa tendenza piú frivola a crearsi miti superbi e ottimistici, a rifiutare la consapevolezza amara e virile di tali limiti: donde l’acre meditazione del sonetto 182 ispirata dalla feroce dissenteria che aveva condotto il poeta sull’orlo della tomba, l’aspra ironia sulle «fole»[98] superbe degli uomini, annullate dalla consapevolezza della loro realtà, soggetta a tante umilianti limitazioni fisiche: «sieda un solo mesetto alla predella»[99]. Ma insieme grandezza e nobiltà della natura umana nella tensione eroica degli uomini superiori, nel «forte sentire» e nella tenace lotta (tanto piú alta quanto piú consapevole della propria difficoltà) contro il limite della realtà, nell’attiva fedeltà a valori e sentimenti eroici e generosi («Gloria, amistade, amore [...] Ah! sol per voi la vita è un bene»[100]), nell’instancabile operosità per ottenere l’«immortal vita seconda». Donde l’ansia di perfezione artistica e della libertà necessaria all’intera espressione di una poesia rinnovatrice ed eroica che si esalta nei sonetti 184 e 187[101].

Ma il centro di attenzione dell’Alfieri rimaneva sempre la propria situazione, il proprio autoritratto. E cosí, a conclusione della prima parte delle Rime (fuori delle zone piú violentemente drammatiche dei sonetti di «lontananza», in una atmosfera piú meditativa e pacata, e non perciò priva di energia e di impulsi, di scatti dolorosi, ma sempre meglio controllati e inseriti in una costruzione piú attenta, in una misura che prelude a quella della seconda parte) si deve ricordare un altro sonetto (il 186) a cui l’Alfieri diede la funzione di un vigoroso e meditato riepilogo e di una giustificazione della propria vita e della propria opera. In forme intense e sicure, in un’articolazione perfetta e dominata, come in un lucido ragionamento, si svolgono i motivi che l’Alfieri considera essenziali alla sua vita e alla sua opera. Anzitutto la «vera di gloria alta divina brama», che è limitata dalle condizioni servili del suo paese natale; poi gli atti con cui l’uomo libero agisce per attuare ugualmente la sua fervida ispirazione: la netta separazione dal «volgo» dei suoi concittadini «conservi» (e si noti la mossa vibrante con cui la poesia adegua questo orgoglioso, consapevole primo movimento dell’uomo alfieriano, intollerante di ogni comunione col volgo degli schiavi) e l’abbandono della terra natale (patria – non «patria» secondo la celebre definizione della Tirannide)[102].

Ma su questo punto vi è come un’esitazione, superata in una sicura conclusione dolorosa: egli si sente esule e, pur accettando la lontananza dalla terra natale per ragioni di libertà, «al suo nido ci pensa ognora». E perciò la sua azione, non potendo risolversi in una liberazione con la spada, si concreterà nella poesia che lo conduce alla gloria e rende consapevoli i suoi concittadini della loro servitú, iniziando cosí la loro maturazione alla libertà:

Uom, cui nel petto irresistibil ferve

vera di gloria alta divina brama;

nato in contrada ove ad un sol si serve,

come acquistar mai puossi eterna fama?

Dal volgo pria dell’alme a lui conserve

si spicca, e poggia a libertà che il chiama,

attergandosi e l’ire e le proterve

voglie del Sir, che la viltà sol ama.

Ma poi convinto, che impossibil fora

patria trovar per chi senz’essa è nato,

benché lungi, al suo nido ei pensa ognora.

Liberarlo col brando non gli è dato:

con penna dunque in un se stesso onora

e a’ suoi conoscer fa lor servo stato.[103]

Questo sonetto anticipa temi tipici degli ultimi anni alfieriani (brama di gloria, patria e libertà) e presenta anche uno schema che sarà ripreso nella seconda parte delle Rime, soprattutto nel grande sonetto 288. E dimostra insieme una capacità di disposizione di elementi meditativi e autobiograficamente riassuntivi che, senza avere la forza impetuosa delle rime di altri anni, si impone come piú costante misura di corrispondenza tra la forma del sonetto e la materia poetica che vi si dispone.

Mentre l’ultimo sonetto, il 188, anticipa anche piú esplicitamente certi elementi di pacatezza e saggezza senile che prevarranno nella seconda parte. Poesia e Amore resistono all’imperioso comando di Prudenza e Senno, che, all’alba dei quarant’anni, sgombrano il cuore del poeta dai sentimenti giovanili; ma anch’essi sono intonati in forme piú blande, diverse da quelle con cui essi avevano avuto vita piú profonda ed energica nelle rime degli anni precedenti e nelle tragedie, a cui l’Alfieri era ritornato fra il 1784 e il 1787, e rispetto alle quali il lavoro delle rime fu fondamentale, come indico nel mio saggio sulla Mirra:

Del dí primier del nono lustro mio

già sorge l’alba. Ecco, Prudenza e Senno

siedonmi al fianco; e in placid’atto e pio,

a una gran turba di sgombrar fan cenno.

Le audaci brame, e l’ire calde, e il brio

giovenil, che all’errar norma mi dienno;

ed altri ed altri i di cui nomi oblio,

tutti or dan loco: ed obbedir pur denno.

Ma, né pur segno di voler ritrarsi

fanno due alteri, il cui tenace ardore

par che col gel degli anni osi affrontarsi:

Poesia, che addolcisce e innalza il core,

vuol meco ancor, scinto il coturno, starsi;

e, sotto usbergo d’amistade, Amore.[104]


1 L’Alfieri nella Vita affermò di aver prevenuto volontariamente la possibilità di un simile ordine, ma il Diario del cardinale di York ci convince che in questo caso il poeta deformò la verità dei fatti (su di un particolare in verità di scarsa importanza). L’espulsione dell’Alfieri da Roma fu salutata da vari sonetti d’occasione, fra i quali si può ricordare quello del Monti che parlava dell’Alfieri come di un «novello Egisto», resosi già famoso con le sue avventure riguardanti «d’Anglia i letti» (Son. Contro l’Alfieri; in V. Monti, Poesie, a cura di G. Bezzola, Torino, UTET, 1969 (19742), p. 59).

2 Si vedano in proposito, con risultati di varia efficacia, gli epigrammi contenuti nella Parte prima delle Rime cit., contro i giornalisti (III; p. 179), contro i cruscanti toscani che attaccavano i versi alfieriani perché duri, disarmonici, oscuri, nel loro netto contrasto con il “cantabile” arcadico e con la chiarezza e regolarità cruschevole (XXVIII; pp. 190-191). Particolarmente notevoli per capacità di brio e di pungente ironia il XVII contro i professori dell’Università di Pisa (pp. 185-186), e, veramente bello per rapidità e rilievo squillante, il celebre XVIII (p. 186), e il IX contro i pedanti che «Ansanti, sudanti» cercano invano di seguire il volo geniale dei poeti (p. 182).

3 Si veda il X contro un cardinale (forse con allusione al cardinale di York?) e quello (I) contro l’eccessivo numero degli ecclesiastici e l’eccessiva potenza politica del papato in Italia (ivi, pp. 182 e 178-179).

4 Il Parini aveva pur compreso la profondità della tragedia alfieriana, del suo scavo potente nel «cupo, ove gli affetti han regno», ma aveva anche lui riscontrato nell’opera alfieriana una insufficienza di stile che egli evidentemente misurava alla luce del suo ideale estetico cosí diverso da quello alfieriano. E cosí l’Alfieri poteva giustamente osservare nella Vita che, nel suo incontro col Parini, questi gli aveva dato consigli assolutamente inadatti al perfezionamento del suo stile cosí legato a una diversa concezione della poesia e alle diverse esigenze della sua ispirazione (Vita cit., I, p. 241).

5 Son. 89, v. 14; Rime cit., p. 80.

6 La prima parte delle Rime, che comprende componimenti scritti fra il 1776 e il 1789, fu pubblicata dallo stesso Alfieri nell’edizione di Kehl (1788-89). La seconda parte, che comprende i componimenti scritti dal 1789 al 1798, fu pubblicata postuma (da un manoscritto già preparato dal poeta per la stampa) nel 1804 a Firenze con la falsa indicazione di Londra. Tutta la raccolta venne criticamente edita da F. Maggini (l’edizione di Torino, Paravia, 1903, è assai imperfetta), Firenze, Le Monnier, 1933, e corredata dell’apparato delle varianti e delle successive redazioni di tutte le poesie (e completata con l’edizione dei tentativi giovanili e delle rime sparse). Questa fondamentale edizione è stata poi riprodotta e ulteriormente arricchita dallo stesso Maggini nel volume già citato dell’edizione delle Opere dell’Alfieri promossa dal Centro Nazionale di Studi Alfieriani di Asti. Per la storia delle edizioni delle Rime rimando all’introduzione del Maggini, notevole anche come studio critico di questa attività alfieriana.

7 Come le considerò il De Robertis nel suo saggio del 1933 (Le rime, compreso nella sezione Letture dell’Alfieri del volume Saggi, Firenze, Le Monnier, 1939, pp. 58-62). Come “libro segreto” le Rime ebbero una nuova particolare fortuna nel gusto novecentesco, attratto dalla loro natura piú intima e lirica e dal loro valore di esercizio di stile (meglio precisato e valutabile dopo l’edizione del Maggini che permette, con l’apparato delle varie redazioni e varianti, di studiare la cura di elaborazione, l’impegno espressivo). Notevoli già gli accenni del Croce nel suo saggio citato del 1917, che chiamò le rime (vedendone solo un aspetto) «lenimento del superuomo»; notevoli i giudizi del Momigliano nella sua Storia della letteratura italiana (soprattutto sulla seconda parte) e il saggio del Fubini, Le Rime dell’Alfieri, del 1934, riprodotto in Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani cit., pp. 93-100. E, fra le cose piú belle sulle Rime, si ricordi il saggio di G. Debenedetti, Ingegnoso nemico di se stesso, in Saggi critici, III serie, Milano, Il Saggiatore, 1959, pp. 19-37.

8 Vita cit., I, p. 240. E in tal senso le rime venivano da lui equiparate alle lettere inviate alla donna lontana (e purtroppo perdute) come sfogo dei «sí diversi, e sí indomiti affetti d’un cuor traboccante, e d’un animo mortalmente piagato» (ivi, p. 238).

9 Come è detto nel dialogo La Virtú sconosciuta (1786), in cui il morto amico Gori Gandellini lo dissuade dal «vano pianto», ma non dalle «rime», pur dicendole «troppe» e pregando il poeta di considerarle come «pensiero secondo; le tragedie vadano innanzi; e pensa, che alla nostra Italia ben altramente bisognano altezza d’animo e forza, che non soavità di sospiri» (Scritti politici e morali, I cit., pp. 278-279).

10 Del resto echi del Petrarca sono recuperabili anche nelle tragedie, come ha ampiamente documentato E. Raimondi nel suo saggio Lo stile tragico alfieriano e l’esperienza della forma petrarchesca, «Studi petrarcheschi», IV (1951), pp. 129-171 (poi con il titolo La voce tragica nel registro petrarchesco in Id., Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, pp. 191-241), che tuttavia serve bene anche a mostrare come l’ispirazione alfieriana, cosí diversa da quella del Petrarca, trasformi cosí radicalmente il valore delle immagini e delle parole petrarchesche da renderle quasi irriconoscibili e da farci quasi meravigliare di una loro cosí copiosa presenza nel linguaggio alfieriano. Perché in realtà nelle tragedie non si tratta tanto di suggestione della poesia petrarchesca, quanto di elementi di linguaggio alto e “perfetto” utilizzati spesso in maniera piuttosto indiscriminata anche se piú naturalmente funzionante in direzione patetico-amorosa (e non senza qualche stonatura quando sian troppo rilevati, meno fusi e trasformati nell’ispirazione alfieriana). Mentre spesso le parole petrarchesche sono accolte nelle tragedie come parole di un linguaggio divenuto tradizionale e non piú particolarmente petrarchesco.

11 Sonn. 58 e 40, vv. 3 e 1-2; Rime cit., pp. 54 e 37.

12 Si veda su questo tema lo studio di M. Fubini, Petrarchismo alfieriano, in Ritratto dell’Alfieri cit., pp. 59-93.

13 Rime cit., p. 55 (v. 3).

14 Sonn. 281 e 87, vv. 9 e 3-4; ivi, pp. 229 e 78.

15 La lettura di questo saggio presuppone per molti accenni a sonetti qui non riportati il rimando al testo delle Rime, per il quale si è sempre seguita l’edizione, già citata, a cura di F. Maggini.

16 Rime cit., p. 14.

17 Ivi, p. 15.

18 Ivi, p. 16.

19 Ivi, p. 31. Persin nel vestire l’Alfieri inaugurava un nuovo costume: non piú gli abiti sfarzosi, a colori vivi e vari del Settecento, ma l’abito scuro che andrà poi predominando nell’età romantica (e che in lui traeva anche origine da quell’amore di distinzione, di eccezione che è pure un elemento piú esterno del suo bisogno e del suo istinto di assoluta originalità). E a voler sottilizzare su questo margine piú esterno del dissenso alfieriano dalla propria epoca, si potrebbe ricordare persino la sua decisione di alimentarsi con un vitto sobrio e monotono che tanto contrasta con il gusto succulento della cucina settecentesca!

20 Ivi, p. 34. Motivo della Tirannide («non si potendo dir patria là dove non ci è libertà», Lib. I, cap. 7) che comporta un progressivo contrappeso di dolore, di sospiro dell’uomo che non può vivere nella patria schiava, ma che insieme non può trovare patria fuori del «natio terreno».

21 Chiaro presupposto del celebre passo foscoliano dei Sepolcri, del tema foscoliano delle tombe di S. Croce.

22 Rime cit., p. 20 (v. 14).

23 Un primo accenno di paesaggi alfieriani (a parte l’inizio potente del sonetto 16, già ricordato), si trova solo nel 36, che evoca su base petrarchesca (il Petrarca della gravità piú che della leggiadria) le «selvagge erme foreste» fra le quali egli si aggira addolorato in una giornata di lontananza (ivi, pp. 33-34).

24 Anche questo pellegrinaggio poetico-romantico sarà ripreso dal Foscolo nella seconda parte dell’Ortis.

25 Omaggio che corrisponde anche ad un rinnovato concentrarsi dell’Alfieri in essenziali letture, nello studio dei grandi poeti che egli voleva comprendere, gustare, ma soprattutto “sentire”, contrapponendo alla lettura del “buon gusto” settecentesco quella, ormai cosí romantica, del sentimento, della partecipazione totale, della immedesimazione del lettore con il suo testo, e alla eclettica ammirazione per le “bellezze” dei vari poeti la violenta preferenza, la scelta appassionata dei poeti congeniali, la risoluta attenzione solo alla grande poesia: la quale poi è per l’Alfieri anzitutto energica espressione di forti ed eroiche personalità, di contenuti sentimentali robusti ed eccezionali.

26 Son. 53, v. 10; ivi, p. 50.

27 Son. 54, vv. 3-4; ivi, p. 51.

28 Si tenga presente il sonetto 59 in cui, nel paragone fra la propria situazione e quella del Petrarca, l’Alfieri colora violentemente la vera intonazione delle «pene» petrarchesche con il proprio accento drammatico chiedendo una poesia intensa come il pianto (e come un pianto che «a far pianger vaglia»), una poesia che possa muovere nei lettori «battaglia» di «affetti tanti» ed ecciti, non plachi, una tempestosa violenza di sentimenti (ivi, p. 55).

29 Ivi, pp. 56-57.

30 L’Alfieri delle Rime adopera la parola «mondo» in una accezione pessimistica e sdegnosa assoluta, come farà poi il Leopardi, il quale sottolineerà implicitamente il profondo significato spirituale di un simile uso di quella parola quando noterà che Cristo fu il primo a designare con essa il disvalore della vita e della realtà mondana, di una umanità senza ideali, utilitaristica ed edonistica (cfr. Zibaldone, 112; Tutte le opere cit., II, p. 61).

31 Rime cit., p. 57.

32 Insolito è spesso anche il modo di rapporto fra aggettivo e pronome personale, come nel sonetto 64: «Oh giorno a me vitale e memorando!» (v. 4; ivi, p. 59), che esprime, nella forza del legame sintetico e immediato, nell’intensità pregnante degli aggettivi, l’energia del sentimento, della brama ardente di immagine di felicità lontana, resa appunto piú affascinante dalla sua lontananza e dalla difficoltà della sua realizzazione.

33 V. 4; ivi, p. 58.

34 La malinconia è uno dei temi grandi delle Rime, della Vita, delle lettere ed è coefficiente essenziale della vita dei personaggi delle tragedie, specie in Saul e Mirra; ma solo nelle Rime esso è potentemente isolato e poeticamente realizzato in una gamma e precisione di atteggiamenti che solo le Rime consentono, in quell’approfondimento del ricco animo preromantico alfieriano che si svolge complesso fra un assaporamento e un’ossessione della malinconia tanto superiore e originale («la mestizia è in me natura», son. 89, v. 4) – nelle direzioni della malinconia “furia atroce”, della malinconia «grata, e priva! / Di quel suo pianger, che pur tanto nuoce» (son. 135, vv. 7-8), della malinconia «dolcissima» delle ultime rime – rispetto alla «Ninfa gentile» pindemontiana o agli impeti tetri e sforzati di certo preromanticismo piú convulso ed esteriore.

35 Ivi, p. 60.

36 Vv. 5-6; ivi, p. 62.

37 V. 9; ivi, p. 63.

38 V. 1; ivi, p. 61. Il sonetto è interessante per il bisogno alfieriano di giustificare il proprio amore su di un piano aristocratico, in cui si compongono la nobiltà della d’Albany (che godeva onori regali come moglie del pretendente al trono in Inghilterra) e le sue qualità spirituali, che l’Alfieri compendiava cosí significativamente nel suo atteggiamento “umile-altero”: atteggiamento cosí affascinante per un uomo che non seppe mai scompagnare qualità di umanità e persino di tenera femminilità da condizioni di fierezza, di dignità “altera” che non mancano mai nei suoi personaggi poetici e nelle persone cui concesse la sua simpatia e il suo affetto, nelle rare relazioni della sua vita.

39 V. 5; ivi, p. 65. In queste parole è condensato un sentimento essenziale dell’Alfieri, la cui espressione fu da lui tante volte ripresa (e le rime di questi anni sono essenziali per la nuova ripresa tragica, come base di una piú ricca esperienza sentimentale tradotta in atteggiamenti di personaggi, in elementi piú o meno efficaci della loro vita complessa): il disperato bisogno di trovare completo sfogo in altri, di uscire dalla solitudine individuale.

40 Anche le correzioni piú tarde sono coerenti alla poetica della forza e della intensificazione, alla tendenza alfieriana di rinforzare ogni parte del sonetto per ottenere un singolare equilibrio in tensione: si noti cosí nel primo verso l’inserimento di «un» (prima era «perché tuo solo seggio»), che rende il verso piú denso e fortemente articolato e accresce l’unicità del cuore-seggio della malinconia; la nuova posizione scandita e singolarizzante del secondo verso, che prima era «mio cor ti festi, e mai non n’esci, mai»; la tensione drammatica, implorante del terzo verso che prima era «Tremante, addolorato i’ tel richieggio»; la forza assoluta e squallida introdotta dall’aggettivo «atra», sostituito nel quinto verso al piú comune «negra».

41 Le numerose suggestioni preromantiche di tenebrosi interni di templi gotici, il preromantico gusto sepolcrale, gli echi di tipici temi preromantici (l’amore infelice di Abelardo ed Eloisa) trovano qui un’intera, ispirata trasfigurazione diversamente funzionante: non in direzione di una degustazione descrittiva, ma in relazione ad un genuino, personale sentimento doloroso. L’iconografia preromantica prende consistenza lirica bruciando i suoi margini piú esterni di languore e di puro gusto del macabro e dell’orrido. E la rappresentazione del poeta, immerso nella contemplazione della tomba in quell’ambiente non fittizio e letterario (perché equivalente coerente del suo animo aspramente malinconico), è già una delle potenti figure preromantiche che l’Alfieri dei sonetti ci offre. Si pensi subito in tal senso anche alla figura preromantica del cavaliere solitario nella tempesta, nel sonetto 75.

42 Rime cit., pp. 65-66.

43 Per tale valutazione dell’epistolario rimando al mio saggio su Le lettere dell’Alfieri, ora ripubblicato in questo volume, e alla mia già citata scelta delle lettere per Einaudi. Le lettere han proprio il loro centro piú interessante in una viva, schietta esperienza della vita (che tanto diversifica l’Alfieri da poeti come D’Annunzio, che atteggiano già la loro esperienza vitale in forme letterarie, costituiscono la loro vita quotidiana in pose solenni e calcolate) e in una singolare finezza e ricchezza sentimentale nelle relazioni affettuose con le rare persone a cui l’animo alfieriano si schiude tenero, appassionato, sensibile, attento alle loro gioie, e, piú, alle loro pene. Spesso, come avremo occasione di precisare piú avanti, espressioni delle lettere si incontrano con espressioni delle Rime (e poi delle tragedie posteriori al Saul), specie nella direzione del bisogno di affetto, della sollecitudine altruistica, del sofferto rapporto con le pene degli altri, del valore dell’amore e dell’amicizia come alto compenso nelle miserie della vita, come celeste possibilità di superare i limiti dell’individuo nello sfogo reciproco e continuato del cuore con altre persone dotate di uguale sensibilità, in mezzo ad un mondo «infido», sleale, egoistico.

44 Ivi, p. 64.

45 E si noti il significato dei nomi stessi che il poeta imponeva ai propri cavalli, secondo le qualità umane che egli piú amava: Fido, Gentile, Ardente, Sincero, ecc. Come si può vedere in un Capitolo al Gori Gandellini in cui raccomanda (in una sua assenza da Siena) i suoi quattordici cavalli indicando, fra sorriso ed affetto, le particolari cure di cui ognuno singolarmente aveva bisogno. Del resto in una poesia giovanile rifiutata (Lodi d’un suo cavallo, ivi, pp. 326-328) scriveva questi versi significativi: «e s’io credeva / allo stolto parer del volgo ignaro / che vuole sia di tutte l’uomo il primo; / uomo, ad onta di tanti, io ti chiamava» (vv. 45-48; corsivo mio).

46 V. 3; ivi, p. 73.

47 Valore per lui nettamente inferiore a quello delle tragedie, come chiarisce anche meglio nel sonetto 80 che associa significativamente la lontananza della donna amata e la perdita dolorosa della ispirazione tragica (beni perduti e tanto piú vivi nella sua tensione irrequieta) e indica anche l’inclinazione di patetica compassione per le sue stesse creature poetiche («a lagrimare invito / io fea su i casi d’infelici eroi», vv. 9-10; ivi, p. 72) che caratterizza in parte la nuova ripresa tragica della fine dell’84.

48 Ivi, pp. 79-80.

49 Ivi, p. 80.

50 La meditazione sulla morte è assidua in Alfieri, e caratteristico è in tal senso il sonetto 91, interessante anche per quella meditazione sugli eroi e sui tiranni che verrà ripresa con tanto vigore in altri sonetti dell’86.

51 Son. 93, vv. 8 e 6; ivi, p. 83.

52 «Come potesti / far necessario in noi / tanto dolor, che sopravviva amando / al mortale il mortal?» (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 104-107; Tutte le opere cit., I, p. 37).

53 Vv. 9-10; ivi, p. 84.

54 V. 8; ivi, p. 86.

55 Ansia romantica d’infinito cosí diversa dal compiacimento ottimistico espresso l’anno successivo dal Monti in una simile occasione (le prime ascensioni in pallone): «Che piú ti resta? Infrangere / anche alla morte il telo, / e della vita il nettare / libar con Giove in cielo» (Al signor di Montgolfier, vv. 137-140; in V. Monti, Poesie cit., p. 102).

56 Quante volte ritorna questo motivo nelle lettere alfieriane! Si ricordi, ad esempio, la lettera al Bianchi del 17 settembre 1784, in cui l’Alfieri rimpiange la perdita del Gori Gandellini, amico incomparabile («Il mondo perfido non li dà questi tali, né ve li cerco»), capace di offrirgli l’unica «dolcezza [...] nella vita»: «lo sfogo sicuro, e intero del core, reciproco, e continuo» (Epistolario cit., I, p. 190). E si ricordi come nello stesso Panegirico di Plinio a Trajano del 1785 Plinio metta in primo piano, fra i vantaggi che Traiano otterrebbe rinunziando all’impero, quello dell’amicizia, che solo gli uomini liberi conoscono: «reciproca divina dolcezza; di manifestare interamente il tuo core, e vedere apertamente l’altrui; di dire il vero, e di udirlo» (Scritti politici e morali, I cit., p. 319).

57 Ed è questo un motivo di valutazione positiva degl’italiani che andrà a poco a poco cambiandosi nell’aperto mito del primato italiano quanto a “pianta uomo”, nelle ragioni del nuovo amore nazionale dell’Alfieri degli ultimi anni.

58 Si noti l’uso scherzoso e bonario dei diminutivi e accrescitivi, che poi l’Alfieri volgerà in direzione aspramente satirica nelle Satire e nel Misogallo. Ma nella Vita otterrà a volte effetti nuovi nell’impasto di satira e sorriso nei diminutivi.

59 Rime cit., p. 94.

60 Uno dei versi piú caratteristici dell’Alfieri nella forza espressiva del ritmo tragicamente elegiaco, a cui è essenziale il verbo (verbo del linguaggio prosastico, adoperato con il superbo disprezzo per la “convenienza” tradizionale che è proprio dell’Alfieri quanto piú è sicuro della propria geniale originalità), centrale nella costruzione lenta e calcolata (il senso di un errare senza fine e di un peso opprimente e fatale) fra i due aggettivi posti ai termini estremi, allontanati al massimo per rendere questa impressione di suprema, faticosa malinconia.

61 Rime cit., p. 95.

62 V. 1; ivi, p. 103.

63 Il sonetto fu in realtà scritto piú tardi, il 30 marzo 1785, a Pisa, ma l’Alfieri volle collocarlo fra quelli dalla fine dell’84 alla data del giorno in cui egli apprese la notizia della morte dell’amico, per serbarsi fedele alla disposizione delle rime in precisa relazione con l’occasione che dà vita ai vari sonetti, in precisa successione di diario lirico, per il quale conta piú la prima emozione e l’idea del componimento che la loro compiuta realizzazione.

64 Ivi, p. 116.

65 Ma il verbo che l’Alfieri adopera per esprimere il continuo ardere della passione nel suo cuore è intraducibile con altre parole, e accentua la forza estrema della passione («cui fiamma inestinguibil cuoce») proprio in corrispondenza con la forza estrema delle «onde irate»; come corrisponde alla forza del «solo» iniziale la forza di «quell’ermo lido», che esprime la solitudine selvaggia del lido (prima era «e l’ermo lido», poi l’Alfieri sostituí alla congiunzione l’aggettivo dimostrativo con un acquisto di maggiore energia di suoni e di singolarizzazione dell’elemento di paesaggio).

66 Prima i versi 12 e 13 erano: «Lei che pur sempre bramo anco vedea / venir lieta in aspetto a me dappresso». La correzione assolutizzò la relazione intensa fra l’oggetto del costante desiderio (ma “bramare” è il vero verbo alfieriano a indicare un desiderio fortissimo ed alto) e il desiderio stesso; e «parea» si accorda meglio con la qualità del «felice errore», e soprattutto il «cavalcando venirne» elimina l’inopportuno tono di esplicita letizia e intensifica il movimento dell’immagine, accordandola con quella iniziale del cavaliere solitario.

67 L’Alfieri riprese nell’ultimo verso un verso del Petrarca (Trionfo dell’Amore, I, 101), ma vi sostituí «malinconia» a «filosofia»: «pien di malinconia la lingua e il petto» (ivi, p. 118).

68 Si veda in proposito non solo quanto l’Alfieri ne dice nella Vita, ma la testimonianza piú immediata della lettera dell’8 luglio 1785 al Bianchi, in cui descrive con tanta intensità il suo stato «dolente, e non disperato», in cui ha «l’anima morta, e il cuore sepolto» e «non riconosc[e] [se] stesso» (Epistolario cit., I, p. 290).

69 Riporto il brano come esempio delle possibilità alfieriane di eccellenti risultati nell’agio della prosa epistolare, nella disposizione confidente di un rapporto affettuoso ed affabile: tono diverso da quello della prosa alfieriana dei trattati e usufruito nell’impasto complesso e di equilibrio della Vita e cosí importante a dimostrare insieme la ricchezza dell’animo e le complesse qualità artistiche dell’Alfieri: «Amico Carissimo. Sono stato a Lucca in fine dell’altra settimana, e parte di questa. Quei bagni son posti in amenissime montagne, dove sarei anche stato di piú, se i cavalli, che pure eran soli due, non me l’avessero impedito. Ma non v’era assolutamente da pascerli: un fieno pessimo, niente d’avena; mangiavan orzo, e senta lei come fui nel tornare rimunerato dei fastidj che mi piglio per loro. Messer Frontino, che sempre rigna a ogni viso nuovo di Cavallo, cavalla, asino, mulo, o camello ch’ei trovi per la via, era cavalcato da me, seguiva Fido col servitore; io veniva quieto adagio, godendo di quella vista bellissima di monte, tra i bagni, e Lucca al tornare, in una strada strettissima con monte e scoglio da un lato, precipizio dall’altro: si vide in lontananza venire una bestia carica a soma, volli scendere per prudenza, perché lei l’ha visto là vicino all’Osservanza come egli fa accostandosi ai non conosciuti; lo presi per la briglia, e con un par di frustate lo feci passare accanto alla bestia da carico senza che nulla seguisse; ma appena fu trapassata, che Frontino si rivoltò indietro sicché ci trovammo muso a muso. Quella sua faccia impertinente mi indispettí un poco, e gli diedi un’altra frustata. Ecco che s’impenna, e sui piedi di dietro fa due passi, e mi si slancia addosso a bocca aperta: non ebbi tempo di scansarmi, e m’afferrò d’un morso per il petto sopra la mammella destra, e mi slanciò in terra, e dall’impeto con cui si era appoggiato a me, mordendomi, mi rovinò sopra lui stesso. Il servitore, che era anche sceso lui prima, ebbe tempo a pigliarlo per la briglia, che col suo capo avea di molto oltrepassato il mio per terra, e lo tirò cosí alquanto in disparte, talché io mi potei rizzare da una parte, e lui dall’altra, e miracolosamente non ebbi altro male, che il morso, il quale per i molti panni ch’io aveva, e che mi stracciò, appena arrivò alla pelle, una contusione alla gamba sinistra, e un gran sfregio sul naso, che non so cosa me lo facesse; ma le zampe sue non mi toccarono per niente, mentre mi doveva schiacciare tre volte non che una. Sic me servavit Apollo. Mi sarebbe spiaciuto di rimaner storpiato, o sfigurato; ma se m’avesse messo una zampa per bene sulla tempia, mi liberava da mille guai, e l’ho desiderato appena mi fui rizzato. La gamba mi duole ancora un poco, e il naso fa il suo corso. Queste son le mie nuove; gradirò di sentir le loro. Son tutto suo» (Epistolario cit., I, pp. 291-292). Quest’episodio fu narrato brevemente dall’Alfieri anche in una lettera del 24 agosto al Caluso, a cui inviò insieme la prima stesura del sonetto corrispondente (ivi, pp. 299-300).

70 Vv. 10 e 14; Rime cit., p. 126. Pietà umana, simpatia dolce persino sorridente (si pensi al sonetto 177 dedicato al «Cavalier» Achille, il cane fedele di cui cosí efficacemente e affettuosamente il poeta vagheggia il lento assopirsi nella calda, confidente atmosfera di un interno familiare: le «dolcezze domestiche» di cui l’Alfieri parla tante volte nelle sue lettere) per gli animali diletti, che non mancano mai della tipica nobilitazione alfieriana in senso eroico, in un incontro di attenzione affettuosa e di ammirazione, di qualità “mansuete” e “ardenti” che acquista sempre piú forza nell’animo alfieriano insieme al crescente motivo di attenzione alla complessa sorte dei mortali, miseri ed alti per le loro qualità eroiche tanto piú valide quanto piú collegate ad una loro intensa umanità generosa ed altruistica.

71 E quale finezza nell’immagine del cavallo convalescente e quale forza di affetto e di fantasia in quella di Fido che insegue e allontana la morte in una caccia ardente e lieta nello spalancarsi vastissimo della pianura alsaziana! (quella pianura che l’Alfieri aveva descritto con un respiro poetico cosí pieno nella lettera al Bianchi del 29 novembre 1785). Nuove prove della capacità alfieriana di evocare spettacoli fantastici, paesaggi liberi e ariosi, di esprimere e di oggettivare (pur senza indugi descrittivi e veristici) impressioni piú concrete della realtà che lo circonda e che tanto piú lo interessa quanto piú è legata ai suoi affetti, alla sua simpatia sensibilissima entro il cerchio saldo della sua scelta aristocratica ed esigente.

72 Desiderio di gloria che spinge l’Alfieri a sperare il quinto «serto» di alloro e a sentirsi vicino ai quattro grandi poeti italiani (sonetto 161), in un atteggiamento meno drammatico di quello con cui aveva cantato la sua vicinanza ai grandi poeti nell’83, nell’ansia della perfezione della bella lingua toscana che gli ispira il sonetto 163 per la soppressione dell’Accademia della Crusca (in cui piú che lo sdegno contro gli italiani degeneri prevale quello contro i principi stranieri – in questo caso i Lorena – che vorrebbero privare l’Italia anche della sua lingua).

73 Rime cit., pp. 127-128. Si noti la caratteristica correzione del verso 10 (che in quella inclinazione meno drammatica aveva «sospirar mi fanno»): nella rielaborazione (anche alla luce dell’intuizione piú energica del 155) l’Alfieri corresse «sospirare» (piú patetico e soave) in «delirare», tanto piú suo e adatto al suo sentimento piú vero anche in una direzione di esaltazione nell’assidua compagnia di valori alti, di compensi non volgari: gloria e amore (e «delirare» sarà poi ripreso dal Foscolo ortisiano). Anche nel sonetto 157 al verso 2 «romito» piú pacato e vago fu corretto poi in «sepolto» piú alfieriano, assoluto, coerente a quella poetica dell’intensificazione che guida cosí chiaramente le correzioni delle rime (ivi, p. 133).

74 Ma certo la saggezza qui affiora piú chiaramente ed è elemento che caratterizza il passaggio alla seconda parte delle Rime, e che, nella precoce vecchiaia alfieriana, sarà motivo ispiratore di alcuni sonetti e di alcune lettere, anche se sempre incapace di dominare totalmente il cuore del poeta che rimase sempre ricco di contrasti, d’impeti, di sdegni.

75 Ivi, p. 131.

76 Come si può vedere nel sonetto 160 e nel 159, che è del 1789 (e fu riportato perciò nella seconda parte: sonetto II) ma che l’Alfieri inserí anche qui a rilevare con la sua presenza il momento indicato dal 160: consolazione dello spettacolo della natura e della bellezza femminile.

77 Ivi, pp. 141-142.

78 I contemporanei furono colpiti sempre dalla bellezza dell’Alfieri (si veda, ad esempio, i Mémoires historiques sur la vie de M. Suard di D.J. Garat), ma, soprattutto, li colpí quel volto di cui la Teotochi Albrizzi diceva nei suoi Ritratti: «Si direbbe quasi, che in quel volto l’immagine respiri d’una divinità corrucciata».

79 Anche questo bisogno di un compiuto autoritratto nel sonetto rientra nel prepotente sentimento individualistico dell’Alfieri e passa nel Foscolo e nel giovane Manzoni, nella particolare tematica romantica instaurata dall’Alfieri.

80 Quel pallore era il pallore che il Foscolo sublimò nei Sepolcri: «avea sul volto / il pallor della morte e la speranza» (vv. 194-195).

81 Il paragone di Achille e Tersite è anche nelle Confessioni di Rousseau, la cui prima parte (edita sin dal 1782) fu certo stimolo alla composizione della Vita. Si veda, in proposito, il saggio di H. Sckommodau, «Achille e Tersite», «Convivium», XVII (1949), pp. 439-454, che sviluppa sul tema di Achille e Tersite tutta una rigida ricostruzione della Vita.

82 Si pensi (per l’importanza di tale rapporto presente alla fantasia alfieriana sin dalla giovinezza) alla pagina dei Giornali in cui l’Alfieri si domanda ansiosamente se affronterà la morte da uomo o da vile (26 aprile 1777) e imposta la sua vita come assidua meditazione e preparazione alla morte, quale prova suprema del proprio eroismo, come essenziale verifica della propria coerenza e, piú, del proprio coraggio.

83 Rime cit., p. 143.

84 Si notino l’impostazione dell’inizio sulla ripetizione di membri brevi e simili con tanti aggettivi premessi al sostantivo, l’utilizzazione degli sdruccioli con parole-rima consonanti nel suono aspro e difficile e nel significato cupo e selvaggio («orribili», «insoffribili», «sibili», «terribili»), l’incontro ben volontario di verbi forti e replicati nel verso 7 e della forma eccessiva, quasi retorica, che indica i «modi» di quello strazio («in modi mille, oltre ogni dir terribili»), l’intensificato uso dell’enjambement e della spezzatura nei versi dell’ultima terzina, che assecondano un movimento psicologico a scatti impetuosi e ricadute tetre e prostrate (questo finale parve agli “scienziati” di fine Ottocento la traduzione eccellente di una crisi epilettica!).

85 Son. 172; ivi, p. 145.

86 Ivi, p. 146.

87 E qui veramente lo spunto petrarchesco («Raro un silenzio, un solitario orrore / d’ombrosa selva mai tanto mi piacque», vv. 12-13) par quasi una base scelta dall’Alfieri per differenziare risolutamente la propria diversa ispirazione e poetica.

88 In una prima redazione si legge: «E quanto addentro piú il terren s’inselva». La correzione è coerente al bisogno di riferire tutto il movimento al personaggio che «s’inselva», di esprimere piú potentemente questo immergersi nel piacere della solitudine selvaggia.

89 La stessa correzione del verso 4 («nessuna orrida belva» per «niuna feroce belva») corrisponde insieme a questa ricerca di intensificazione mediante la ripetizione delle parole essenziali («orrida», «orrore») e alla volontà di forme piú compatte e massicce.

90 Anche qui la correzione ha reso piú diretta e assoluta la rappresentazione del poeta solitario. Prima era «odo tacer mie’ guai», che aveva una sfumatura di maggiore complicatezza e debolezza costruttiva, e dava un’impressione piú diretta ed espositiva.

91 V. 14; Rime cit., p. 150.

92 V. 13; ivi, p. 144.

93 Si pensi ancora una volta all’alfieriano giovane Foscolo e all’Ortis con la netta contrapposizione di Jacopo-passione a Odoardo-ragione.

94 E in questo sonetto si precisa la contrapposizione tra francesi e italiani che si consoliderà e si giustificherà piú chiaramente nell’ardente mito nazionale del Misogallo.

95 Son. 162, v. 6; Rime cit., p. 137.

96 V. 9; ivi, p. 155.

97 Vv. 12-14; ivi, p. 145.

98 Le «superbe fole» del Leopardi della Ginestra, i sogni antropocentrici e trascendenti della polemica leopardiana delle Operette morali e dei Paralipomeni.

99 V. 14; ivi, p. 153.

100 Son. 181, vv. 13-14; ivi, p. 152.

101 Ed erano gli anni in cui l’Alfieri lavorava alla rielaborazione definitiva delle tragedie per l’edizione Didot.

102 Abbandono doloroso in questa nuova fase dell’atteggiamento alfieriano di fronte al problema della nazione, in questo lento formarsi in lui di un nuovo mito nazionale. E si veda in proposito il sonetto 183 che sviluppa proprio il tema della Tirannide nella significativa giustificazione della sua qualità di esule volontariato e «non vile» a un «cor gentile», per distinguere la propria posizione da quella, da lui disprezzata, di un cosmopolitismo razionalistico o di una volgare sordità all’istintivo amore di patria per mancanza di «forte sentire».

103 Son. 186; Rime cit., p. 156.

104 Ivi, p. 157.